domenica 6 gennaio 2019

La deflazione in salsa olandese

(...sempre rispondendo alle email. Questa credo fosse di settembre, e ci insegna qualcosa che forse non sapevamo. Il problema dei nostri media non è che sbagliano il mio nome, ma che sbagliano il loro mestiere. Da post-Keynesiano, mi costringeranno ad ammettere che il mercato non è poi così male, se consideri l'alternativa...)


Questa mattina ho ascoltato una simpatica trasmissione radiofonica dove si elogiava l'Olanda. I giovini batavi tra i 15 e i 24 anni lavorano assai più dei nostri (60% e passa versus 17%, poi ascolterò il podcast per avere le cifre esatte). Visto che adesso fa comodo buttarla sullo scontro generazionale, si è detto che andare in pensione prima non serve e che ovviamente il nostro è un problema culturale, perché i batavi (quelli che sul sito del governo ammettono placidamente che l'euro fa bene all'export perché il fiorino tanto ino non era) vanno in pensione tardi e iniziano a lavorare presto. Solo che non hanno citato un piccolo dettaglio: il fatto che in Olanda esiste un salario minimo dai 15 ai 22 anni che aumenta progressivamente con l'età, per cui a 15 anni costi 2,76€ (lordi) l'ora per 40 ore settimanali, a 21 ... 7,82! Dai 22 anni scatta poi il salario minimo uguale per tutti (tutti, meno quelli che hanno meno di 22 anni, s'intende. Anvedi!). Sospetto che qui in Barbaria Meridionale un provvedimento simile sarebbe incostituzionale; nel qual caso, ovviamente anche quello sarebbe un problema culturale. Nel 2018, questi italici populisti che pretendono di pagare tutti allo stesso modo sono a dir poco passé, no?


(...la più infame colpa dei media liberisti è stata appunto quella di mettere i figli contro i padri in nome di una guerra generazionale della quale i loro stessi intellettuali di riferimento disconoscevano la fondatezza: non è perché i vecchi hanno una pensione che i giovani non hanno un lavoro, ma, esattamente al contrario, è perché i vecchi non vanno in pensione che i giovani non trovano lavoro. E a questo, anche se non il 5 marzo, un rimedio abbiamo cominciato a metterlo...)

Un anno dopo

(...due giorni fa ho aperto con gli altri parlamentari della Lega, il candidato presidente di centrodestra, e Matteo Salvini, la campagna elettorale per le regionali in Abruzzo. A distanza di un anno, il cambio di passo è evidente. Migliaia di persone ovunque, e centinaia in piazza a L'Aquila con la neve, zero gradi, e pochi contestatori - fischiati dal pubblico. La crescita è impressionante. Se, da una parte, questo consenso travolgente fa capire che il mondo social è una bolla autoreferenziale - i temi dei quali ci siamo occupati ultimamente interessano poco alla maggioranza degli elettori - dall'altra, naturalmente, accresce il peso delle responsabilità. Per questo vi propongo di passare l'ultimo giorno di vacanza con una lettura che sdrammatizzi un po' il clima. Vi ricordate di quando i volenterosi carnefici del capitale, in stupefacente sincronia, non riuscivano a non storpiarmi il nome? Evidentemente voi non dovevate arrivare qui... ma molti ci erano già arrivati, e altri continuano ad arrivare! La situazione era così grottesca che uno di voi ci compose delle strofe. Vi offro questa goliardica sintesi di un anno di storpiature - o di scarsa professionalità - o di entrambe!...)



Prima all'Ansa fu l’Umberto
e pensammo ad un refuso;
fu la volta poi d’Andrea,
che sentimmo come abuso.

Quando Alessio diventasti
ci chiedemmo come mai,
poi in TV fosti Roberto
e su Libero Magnai.

A quel punto desistemmo,
senza più capire ormai
chi era il candidato Alberto, 
della stirpe dei Mugnai.

Le assonanze contestammo,
ma poi, in fondo, chi non sbaglia?
Così al Secolo sei Fabio,  
che fa rima con Cimaglia!

Quando infine un po' sperammo
che anche lor fosser cristiani, 
si pentissero, cambiando,
spunta il Senator Bagnani.

Or che i nomi hanno finito,
mentre van cercando usbergo,
gazzettieri al benservito,
ti trasforman in Albergo.

Ai cognomi son passati.
La maiuscola perdendo, 
tu sei il "professor bagnati".
Il lor tempo sta scadendo.

Di flat tax ottenebrati,
col terrore del domani, 
sempre più disinformati,
or ti chiamano Bagani.

“Che sia tutta colpa mia?”
Or si chiede il prode Enrico:
"Ché iniziai a chiamarlo Claudio,
dimostrandomi un lombrico?"

Presidente diventasti,
ci scommisi con la Snai, 
sui laptop, privi di tasti,
digitarono Basnai



(...suppongo e spero che qualcosa abbiano corretto nel frattempo... ma anche quando l'hanno fatto rimane traccia, ad esempio nelle URL. Ora sono curioso di vedere come si regoleranno in questa e nella prossima campagna elettorale...)

giovedì 3 gennaio 2019

Prospettive




(...esercizio: provate a localizzare nella seconda immagine la data del 22 novembre 2015...)

(...altra cosa da tener presente, quando si parla di corsi azionari: il 10% di 10 è 1, proprio come il 50% di 2: le prospettive sono un affare di proporzioni...)

martedì 1 gennaio 2019

Le illusioni (ottiche) perdute

Fine anno, tempo di bilanci.

Quello dello Stato ci ha occupato a lungo. Fedele al mio principio "rigore è quanto arbitro fischia, legge è quando esce in Gazzetta", ora potrò commentarlo con voi. A qualche comma ho lavorato, e magari potrà interessarvi sapere com'è andata, quanto lavoro c'è dietro quelle parole, anche quando non vi soddisfano.

Ma oggi mi preme soprattutto un altro bilancio, più personale, anche se non meno politico: quello della mia attività nel dibattito, svolta soprattutto attraverso questo blog. Tirare una linea, sette anni dopo, non è facile. Cosa mi proponevo con questo blog? Mi sono avvicinato all'obiettivo? Cosa posso fare per avvicinarmi ulteriormente? Lo sforzo c'è stato, credo che lo si veda. Quello che leggete è l'ultimo di 1965 post, che complessivamente hanno ricevuto in sette anni quasi 37 milioni di visualizzazioni.

Il rendimento qual è stato?

Rispondere è arduo, per un motivo che cerco di spiegarvi come posso. Le tante manifestazioni di affetto, di solidarietà, di sostegno che ho ricevuto e ricevo da voi, come pure quelle di segno contrario, le critiche, le manifestazioni di dissenso, di delusione, mi rinviano tutte, per un verso o per un altro, a un dato ineludibile: posto che ognuno di voi è (legittimamente) il centro del suo mondo, di Alberto Bagnai non ce n'è uno, ma ce ne sono tanti quanti siete voi. Detto in sintesi: voi credete di seguire me, ma in realtà seguite, inevitabilmente, voi stessi: quel pezzo di voi stessi che è il vostro "me", il "me" che pensate vi abbia detto le cose che desideravate sentirvi dire. Può darsi che quello che desideravate sentirvi dire abbia coinciso con quello che desideravo dirvi, almeno per un certo periodo di tempo, come può anche darsi che a un certo punto questa felice coincidenza si sia dissolta, magari perché sono cambiato io, o perché siete cambiati voi. Non c'è nulla di male: ognuno di noi fa propri gli autori in cui si imbatte: li legge con le lenti della propria esperienza, li adatta alle esigenze tattiche della propria battaglia quotidiana, se ne serve per ottenere ciò che desidera.

Quante volte mi avrete sentito dire spazientito: "Se mi seguite, seguitemi!", quando mi sembrava che vi foste persi qualche pezzo (dalla definizione di cambio reale a passaggi più banali, organizzativi, come la data del nostro convegno)? Ma mi rendo conto di essere stato qualche volta ingiusto. Ognuno di voi seguiva il "suo" Alberto, e non era colpa sua se questi non coincideva col "mio".

Tanto per farvi un esempio concreto: a giudicare da certe esternazioni recenti nella cloaca di Twitter, mi sembra che quasi nessuno abbia letto le uniche due interviste che ho rilasciato dopo l'estate, quella su Il Mattino, e quella su La Verità. Che dite, volete approfittare delle vacanze per recuperare il tempo perduto? Mi fareste la cortesia, anche se le leggeste allora, di rileggerle oggi, magari cercando, con l'immaginazione o con Google, di ricordare quale fosse la situazione al tempo in cui le interviste vennero rilasciate? E magari vedendo dove siamo arrivati?

E dai, fatemelo questo regalo! Magari, più sotto, vi spiego perché vi chiedo questa cortesia...










































Fatto?































Andiamo avanti?


































Bene!

Tornando al punto in cui ci eravamo interrotti, resta da decidere se il bilancio di questa attività, la valutazione di quanto questa sia riuscita a incidere, vada effettuato sull'Alberto che penso di essere, o sulla moltitudine dei vostri Alberti personali. Il primo compito è difficile, il secondo impossibile, anche per motivi di spazio, e quindi non ci resta che una scelta, la prima. Do quindi per scontato che questo bilancio deluderà tutti voi, appunto perché ognuno è il centro del proprio mondo, lo stratega della propria battaglia, e il detentore della propria verità: rassegnarsi ai mondi, alle battaglie e alle verità altrui non è difficile: è impossibile. Quello che cercherò di dirvi vi sembrerà quindi necessariamente falso (artificioso, strumentale, narcisistico, apologetico, pleonastico, ecc.).

Ma altro da dirvi, io, non ho, e quindi ve lo farete bastare.

Per rispetto del vostro tempo, in questo giorno così significativo dell'anno, vi faccio l'abstract, come si fa nei pèiper, così, esattamente come quando si leggono i pèiper, i più pigri potranno tranquillamente voltare pagina, o saltare alle conclusioni.


Abstract - A me sembra di avervi voluto dire in questi sette e più anni due sole cose: che la democrazia, intesa come rispetto della sovranità popolare che si esprime attraverso il voto, è importante, e, in subordine, che una delle principali insidie nella quale essa oggi incorre è la costante manipolazione esercitata dai media. Qui ci siamo occupati di fake news, e sul serio, ben prima che il tema venisse tirato fuori strumentalmente per criminalizzare il dissenso politico, evidenziando in particolare (ma non solo) il tentativo orwelliano di riscrittura del passato messo in opera per "controllare il futuro" (cioè per condizionare lo vostre scelte) da chi controlla(va) il presente. Nell'abstract di solito i risultati non si mettono, ma per farvi un favore vi sintetizzerò anche quelli: in tutta evidenza, non sono riuscito a farmi capire. Due cose volevo dire, e due cose non sono state capite. In sette anni. Quindi, ho fallito.


(...se a qualcuno interessa, aggiungo anche che ho elaborato il lutto: se non avessi sviluppato questa capacità, non potrei fare il lavoro che faccio...)

Segue svolgimento.

Tutti ricordiamo come ci incontrammo.

Il blog venne aperto sull'onda di un moto di indignazione: la mia, per il rifiuto opposto dalla redazione de lavoce.info alla richiesta di pubblicazione de I salvataggi che non ci salveranno (che così divenne il primo post di questo blog). La tesi dell'articolo era scientificamente fondata: la nostra crisi non dipendeva dal debito pubblico. La fondatezza è dimostrata, fra l'altro, dal fatto che le stesse persone che l'avevano respinta se ne appropriarono nel loro personale 8 settembre, che era il 7 settembre del 2015, proponendo come loro risultato originale un'analisi che non solo non era loro, ma (come poi scopersi) non era originale nemmeno quando, con quattro anni di anticipo su quelli bravi, su iCoNpetenti, l'avevo pubblicata qui. Fu uno di voi, non ricordo chi, a farmi notare che quanto io avevo scritto a novembre 2011 era stato scritto nell'ottobre dello stesso mese sul Bollettino economico della Bce: la crisi che stavamo, e stiamo, vivendo non dipendeva dal debito pubblico, ma da quello privato.

Gli squilibri erano nel settore privato, non nella finanza pubblica allegra...

Oggi rendersene conto è facile. Allora lo era un po' meno. Io ci ero arrivato da solo, e con me altri sparsi per il mondo, ma l'ortodossia negava: poi si piegò, confermando che la mia indignazione non era l'isteria di un autore lunatico indispettito per il sereno responso di un lettore "coNpetente", ma aveva un fondamento, naturalmente di natura politica. I redattori avevano censurato il mio articolo perché in base a un ragionamento scientifico preconizzava il fallimento delle politiche di quello che allora era un loro, e oggi è un mio collega: Mario Monti. Il fallimento poi ci fu, e ancora ne portiamo le cicatrici, che si vedranno nella storia economica del paese per decenni e forse secoli a venire. Di questo fallimento l'articolo spiegava partitamente e inoppugnabilmente le ragioni: curare una crisi di debito privato come se fosse una crisi di debito pubblico (cioè con l'austerità), tagliare la gamba, se non sana, meno malata... e poi stupirsi che il paziente non riesca a correre!

Ma non bisognava disturbare il manovratore, o almeno la redazione non voleva farlo: aveva judo...

Questo, qui, ce lo siamo detti mille volte. Gli aspiranti Pulitzer che grufolano fra queste pagine, mentre incombe su di loro lo scatolone di cartone col quale si troveranno in mezzo a una strada, forse ignorano questa storia, o forse vorranno strumentalizzarla a uso delle loro gazzette che nessuno legge più: facciano! Male che vada, porteranno qui altri lettori, che scopriranno come quello che essi intravedono confusamente nel 2018 fosse stato descritto per filo e per segno nel 2011... dalla BCE!

Questa esperienza, voi, l'avete già fatta: ma ad altri potrebbe tornare utile...

(...cari aspiranti Pulitzer: io vi vedo e vi piango. Quello che viene scritto su questo blog, dove scrivo solo io, ha una sua speciale caratteristica. Quale? Chiedetelo a Macron...)

Tuttavia credo che abbiate dimenticato, almeno a giudicare da come una minoranza rumorosa di voi si comporta, che era stato un ben altro facit indignatio a farmi entrare nel dibattito!

Erano state le agghiaccianti parole di Aristide, sulla scaletta dell'aereo che ci riportava a Parigi da Ouagadougou (per mero caso, la città dove era stato assassinato Sankara!). Quelle parole mi pervasero di un orrore che, tanti anni dopo, non riesco a scrollarmi di dosso: "Caro Alberto, i costi dell’euro, come dici, sono noti, tutti i manuali li illustrano. Li vedevano anche i nostri politici, ma non potevano spiegarli ai loro elettori: se questi avessero potuto confrontare costi e benefici non avrebbero mai accettato l’euro. Tenendo gli elettori all’oscuro abbiamo potuto agire, mettendoli in una impasse dalla quale non potranno uscire che decidendo di fare la cosa giusta, cioè di andare avanti verso la totale unione, fiscale e politica, dell’Europa." Questo nauseabondo paternalismo non mi sorprese più di tanto: conoscevo abbastanza la sinistra, essendomi riconosciuto antropologicamente in essa per anni, da sapere di quanto feroce disprezzo verso il popolo essa fosse e sia irrimediabilmente intrisa. La cosa sbalorditiva, mi ripeto: agghiacciante, era che esso venisse ostentato, rivendicato, con orgoglio, quasi a ulteriore riprova della superiorità morale e politica di chi lo faceva proprio...

Tenni dentro di me queste parole per un anno, mentre assistevo, passo dopo passo, allo sprofondare della Grecia. Ogni mese, ogni settimana, ogni giorno ci allontanava visibilmente dall'obiettivo in nome del quale qualcuno aveva ritenuto giusto che tanti sacrifici venissero sopportati da tutti gli altri. Poi, come ricorderete, nell'agosto del 2011 scrissi per il Manifesto/Sbilanciamoci un articolo che svegliò molti di voi.

Ammetto che in termini politici quell'articolo non fosse un capolavoro: una parte del paese, per di più quella che ritiene di essere per diritto divino migliore dell'altra (la sinistra) veniva messa di fronte a una sgradevole alternativa: ammettere di essere composta da imbecilli, o da traditori (con ogni possibile combinazione convessa). Il tradimento del lavoro era lì, sotto gli occhi di tutti: quegli stessi sindacalisti che oggi scendono in piazza contro quota 100 e il reddito di cittadinanza erano stati acquiescenti di fronte a decenni di caduta, lenta ma inesorabile, della quota salari, allo smantellamento di tutti i presidi a tutela dei lavoratori... Quanto alla "non particolare brillantezza" (diciamo così) dei miei interlocutori "de sinistra", questa risaltò in tutto il dibattito che ne seguì (qui un punto saliente, e qui un abisso particolarmente significativo, soprattutto col senno di poi, che per me era stato come di consueto il senno di prima...). Ogni successiva occasione di incontro sgretolava il pilastro sul quale aveva poggiato la mia Bildung: l'idea che la sinistra, pur con tutti i suoi umani difetti (fra cui il disprezzo dell'umanità), fosse comunque il luogo in cui albergava la cultura, e la libertà di espressione. L'evidenza, dolorosa, era lì: mi ero accompagnato per anni a degli imbecilli traditori, di cui ero stato correo, perché avevo creduto a quanto mi era stato insegnato: che io ero nato dalla parte giusta, dalla parte di quelli che avevano vinto una guerra che il paese aveva perso, e l'avevano vinta perché erano migliori degli altri.

Tuttavia in politica, come in generale nella vita, bisognerebbe sempre lasciare una via di fuga all'avversario, soprattutto se è un imbecille, e naturalmente a meno che non si abbiano sufficienti divisioni da potersi permettere il lusso di considerarlo un nemico, ed annientarlo. Nel mio caso una evidente sproporzione di forze in effetti c'era, ma era tutta a mio svantaggio! Ero solo. Eppure, indipendentemente dalla mia volontà, la logica del ragionamento economico vie di uscita non ne lasciava. Se anche avessi voluto, l'onestà intellettuale imponeva di dire le cose in quel modo, perché in quel modo stavano. E poi, proprio perché ero solo, non avrei mai pensato che quell'articolo avrebbe avuto tanta risonanza, tanto più perché si rivolgeva alla ristretta cerchia della "sinistra de sinistra". Era un urlo di rabbia: non volevo costruire nulla, perché non pensavo che sarei riuscito a costruire nulla, e soprattutto perché non pensavo che spettasse a me costruire qualcosa. Nonostante non mi sentissi particolarmente rappresentato da nessuno, ritenevo comunque di vivere in una democrazia rappresentativa: la politica non era affar mio, avevo delegato, col voto, e aspettavo che qualcuno aprisse gli occhi...

Non sapevo, allora, quanto la mia attesa sarebbe stata vana. In effetti, ignoravo che quanto mi indignava nell'atteggiamento di Aristide era in realtà il distillato di una lucida e consapevole filosofia politica, quella del cosiddetto federalismo europeo. L'uso deliberato delle crisi, in particolare di quelle economiche, come strumento di "avanzamento del progetto" era stato teorizzato da personaggi quali Albertini o Spinelli, e questo non lo dico io: lo dicono, e ne menano vanto, i federalisti stessi! La costruzione consapevole e deliberata (mi ripeto: deliberata) di una struttura imperfetta, assistita da regole stupide, condotta con la pretestuosa illusione di aggiustarla sulla spinta di una crisi, trascurando il fatto che durante le crisi i rapporti di forza (fra capitale e lavoro, fra potenze e colonie...) necessariamente vivono una situazione di patologico squilibrio, e che le riforme condotte a colpi di crisi altro esito non possono avere che quello di cristallizzare queste patologie. "Un giorno ci sarà una crisi...". L'uso deliberato (mi ripeto: deliberato) della violenza economica, e in particolare del vincolo esterno, come manganello per costringere i popoli ad avanzare in una strada che non si erano scelti: nulla poteva sembrarmi più fascista, e lo dissi.

Quante altre cose non sapevo, che, se le avessi sapute, mi avrebbero vieppiù inorridito! Non conoscevo ancora la dichiarazione di voto di Giorgio Napolitano contro l'entrata nello SME (la trovate a pag. 24992). Sembra scritta da Krugman oggi, in uno dei suoi sprazzi di lucidità, ed invece era verosimilmente stata scritta da Spaventa allora, nel 1978.

Sapevano.

Col tempo acquistai la lancinante certezza che tutti quelli che mi trovavo schierati in difesa di un sistema le cui contraddizioni stavano esplodendo con violenza, avevano denunciato le stesse contraddizioni, con le mie stesse parole (perché erano le parole giuste) ma con maggiore lucidità della mia, oltre trent'anni prima di me.

Sapevano.

Pochi mesi dopo aver lanciato quel grido di rabbia, in agosto, preconizzando la caduta di Berlusconi (oggi mi dicono che nei salotti della Roma che conta la caduta che io credevo di prevedere ad agosto era già data per fatto assodato a luglio: ma allora ero un outsider, non potevo contare su informazioni privilegiate, come potevano allora molti di quelli che oggi frequento, e non potevo ricevere certe visite, come quelle che ricevettero alcuni miei nuovi amici...), pochi mesi dopo, dicevo, partì il blog, in novembre.

La domanda sottesa a tutti gli articoli che si affastellavano, motivati dalle vostre domande, o dall'intervento di qualche pirla di passaggio, come ne abbiamo visti e ne vedremo a decine, era però sempre la solita: come avevamo fatto a cascarci? Perché, in effetti, ci eravamo cascati un po' tutti, o, se non tutti, la maggioranza, che in democrazia è la stessa cosa (more on this later).

La risposta era sotto gli occhi: quotidianamente assistevamo alla distorsione dei fatti economici perpetrata dai media. Prima ancora di leggere con trasporto e con un senso di liberazione libri quali Gli stregoni della notizia o La fabbrica del falso, ragionando per induzione ricostruivamo i meccanismi retorici attraverso i quali verità parziali diventavano mattoni per costruire il falso, per inculcare al lettore un'immagine delle dinamiche economiche unilaterale e moralistica: la raffigurazione di un mondo dove un debito non è mai anche un credito, dove una svalutazione non è mai anche una rivalutazione, dove una esportazione non è mai anche un'importazione. Una medaglia con una sola faccia, priva di coerenza logica, ancor prima che scientifica, ma forse per questo ancor più attraente per gli inesperti. L'esposizione sistematica di questa retorica sarebbe arrivata dopo, con La crisi narrata, di cui qui vi anticipai la prefazione.

Giorno dopo giorno, post dopo post, emergeva che un pezzo importante del colossale fallimento della democrazia nel quale vivevamo era direttamente riconducibile alle dinamiche del sistema dei media, quelle dinamiche sulle quali Gramsci aveva le idee piuttosto chiare: ma Gramsci, per la sinistra cui mi rivolgevo, è ormai un santino, un elemento da venerare per soddisfare una naturale ma sterile pulsione identitaria, guardandosi però bene dal leggerlo (e quante volte ci siamo imbattuti in questo atteggiamento)!

Così, accanto alla riflessione su come si potesse ripristinare un ordine economico che liberasse l'esercizio della democrazia da quel senso di urgenza fasulla (FATE PRESTO!), descritto così bene nelle prime pagine de La costituzione nella palude, dall'oppressione di una perenne crisi, dal peso dei sacrifici da fare quando le cose vanno male perché le cose stanno andando male, e quando le cose vanno bene perché bisogna riparare il tetto quando non piove (cioè perché le cose vanno bene), insomma: dei sacrifici da fare sempre, accanto alla riflessione su quali forze politiche, e, soprattutto, quali nuovi rapporti di forza, avrebbero potuto consentire ai popoli europei di riprendere un percorso di autodeterminazione, di poter realmente progettare un proprio futuro, invece di agire sempre reattivamente a eventi catastrofici amplificati da regole completamente irrazionali, accanto a questa riflessione, nel blog si sviluppava quella su come difendersi dalla costante manipolazione cui siamo sottoposti. Un pezzo importante della crisi, come ci ha insegnato il Pedante, è appunto la sua narrazione: è questa a influire in modo determinante sulle decisioni politiche.

Il governo che sostengo, finalmente, sta cominciando ad affidare al mercato gli aedi del mercato: sine, ut mortui sepeliant mortuos suos. Lo ritengo un provvedimento giusto: pluralismo non è quando molte voci dicono la stessa cosa, ma quando poche voci dicono cose diverse. Lo spazio lasciato libero da chi non riuscirà a sopravvivere in un mercato non drogato da sussidi diretti e indiretti (e su questi ultimi c'è ancora tanto lavoro da fare) verrà occupato da altri: cambieranno i suonatori, e forse, chissà, anche la musica.

Questo per il futuro.

Oggi, però, dopo sette anni passati a vagliare, riscontrandole sulle fonti primarie, le sciocchezze che ci vengono ammannite, spesso anche da voci autorevoli o presunte tali (a partire dalla favolosa "inflazione a due cifre negli anni '90"), mi aspetterei che anche prima che il mercato ci sbarazzi da chi lo proclama igiene del mondo, voi esercitaste un minimo di attenzione critica verso certe notizie, esattamente come da chi segue un blog nato per denunciare un metodo di governo e una filosofia politica intrinsecamente antidemocratica perché paternalistica (quella secondo cui gli aristoi di sinistra sanno ciò che è bene per il popolo, e lo conducono col vincastro del vincolo esterno verso le magnifiche sorti e progressive da essi determinate), mi aspetterei un minimo di sensibilità democratica.

Ma non è così, e non lo è al punto che certe volte veramente io boh...

(...tradotto: mi chiedo veramente cosa ci stiate ancora a fare qui e chi crediate di avere letto...)

Faccio un esempio molto semplice, che riguarda il mio partito. Qualche giorno fa io e i miei colleghi abbiamo appreso con un certo divertimento che "la Lega era scesa al 32%". In quelli che come me se la ricordavano al 4% questi titoli promuovevano una franca ilarità. A pensar male si fa peccato, naturalmente. Eppure, leggendo non tanto i sondaggi, quanto il modo in cui ci vengono ammanniti, è difficile sfuggire a una sensazione: quella che i risultati della Lega vengano esaltati per preoccupare i nostri alleati, e poi magari depressi per preoccupare noi, sempre nel tentativo di spaccare la coalizione, che però (mi dispiace) non si spacca, anche perché Salvini avrà tanti difetti, ma non è Theresa May (per citare un esempio illustre di persona andata alle urne con un sondaggio in tasca: quello sbagliato!).

Il gioco è trasparente: chi potrebbe caderci?

Purtroppo... voi!

Ve lo dimostro con un grafico, questo:

Qui trovate, da sinistra verso destra, il risultato della Lega alle politiche (poco sotto il 18%), quello dei sondaggi attuali (il 32%), quello che occorrerebbe per governare da soli (posto che sia un obiettivo sensato: il 51%), e quello che i tuttosubitisti, nella loro percezione appannata, evidentemente ritengono che noi abbiamo: il 100%.

Io adoro i tuttosubitisti!

Poverini: non è colpa loro se non si rendono conto che la Lega non è "scesa dal 35% al 32%", ma salita dal 4% al 17%. Non esiste nessuna discesa di tre punti: esiste una crescita di tredici punti, che però arriva a un culmine ben inferiore al 32%. Ma loro niente! Duri come il ferro, cadono nell'illusione ottica di chi vuole dipingerci come un partito di maggioranza assoluta, un partito al 51%, che dico, al 100%, al 1000% dei consensi, per poi poter presentare come sconfitte i nostri risultati. Questi, certo, non sono sempre pienamente conformi a quanto magari avremmo desiderato ottenere (siamo in coalizione, e lo stesso vale per i nostri alleati): ma, soprattutto, i nostri risultati non sono quasi mai conformi a quelli che avrebbe auspicato il PD (che, non dimentichiamolo, ancora esercita sui media una determinante egemonia culturale). Non è strano che il PD, pardon: i media, li dipingano come nostre sconfitte: perché sono sconfitte loro!

Insomma: i giornali battono la grancassa, per motivi tanto leciti quanto evidenti, ma i nostri amici tuttosubitisti si bevono la qualunque, a testimonianza del fatto che non hanno letto questo blog, ma un altro, che l'Alberto che hanno seguito non era il mio, ma il loro.

Se avessero letto questo blog, narraFFioni come quella del "momento Tsipras" incuterebbero in loro un certo sospetto, mica per altro: per chi le diffonde! In effetti, i lettori di un blog che dal primo articolo ha smascherato la fallacia delle politiche montiane (ricostruendone le intenzioni redistributive) e per sette anni ha evidenziato le bufale dei giornali, forse non dovrebbero prendere troppo sul serio quanto dice Monti su un giornale (e soprattutto su Il Giornale). In questo, come in tanti altri casi, più che chiedersi che cosa stia dicendo il pensatore di turno, occorrerebbe chiedersi perché lo stia dicendo, e perché ora. Ma il tuttosubitista è deluso: ultimo esemplare di quella lunga teoria di amanti tradite che ha punteggiato col proprio isterico starnazzare le pagine di questo blog, ulcerato dalla perdita delle sue illusioni, il tuttosubitista prorompe in strepiti e improperi: "Hai traditoooh! Volevi solo la poltronaaah! Caporettoooooh!"...

E questo perché?

Perché con il 17% dell'elettorato, di cui si stima che solo un terzo ci abbia scelto per la nostra motivata critica del progetto europeo, quindi, di fatto, con uno 0.3x0.17=0.051=5.1% dell'elettorato, non abbiamo ancora realizzato una cosa che non è nel contratto di governo per i noti motivi!

Povero tuttosubitista! Gli siamo vicini nell'elaborazione del suo lutto, ma non possiamo fare a meno di constatare che le sue illusioni perdute sono, prima di tutto, illusioni ottiche. La Lega, unico partito che avesse messo in programma un serio ripensamento del progetto europeo, ha il 17%, e in Parlamento lavora (bene) con quello, non con il millanta per cento che i giornali e la percezione distorta dei boccaloni che ancora li leggono gli attribuiscono. Diciassette per cento significa un sesto degli elettori, di cui forse il 5% (che significa un ventesimo) ha una qualche consapevolezza delle dinamiche che vi ho descritto fin qui. Notate bene: è un risultato enorme, epocale! In nessun altro paese europeo esiste una minoranza così forte da aver portato in Parlamento tante voci critiche e consapevoli. Ma ai tuttosubitisti questo non basta: invece che l'inizio di una lunga guerra di indipendenza, lo considerano, per motivi strumentali, o semplicemente per mancanza di tempra, una sconfitta definitiva...

Ora, vedete, il dato politico è che stiamo parlando di quattro gatti: i tuttosubitisti sono un sottoinsieme degli zerovirgolisti! Appartengono cioè a quello che il violoncellista neoborbonico, amico degli amici del blog, chiama il PIP: "Partito Italiano Prefissi". Sì, insomma: quella coalizione in cui ricade chi ottiene risultati con uno zero davanti... Quindi, in effetti, visto che la politica si fa coi numeri (e magari anche col cervello) gli scleri di queste persone sono totalmente irrilevanti, se non per chi, come alcuni futuri Pulitzer (ricordatevi la scatola di cartone, amici...), esercita il lavoro pagato (ancora per poco) di grufolare fra queste pagine per redigere simpatici articoli di colore su giornali la cui rilevanza è anch'essa da prefisso telefonico.

Voglio essere più esplicito. Due giorni fa su Twitter ho segnalato un dato che a me sembrava paradossale:


Vi esorto a cliccare qui per seguire la discussione che ne è seguita e capire come siamo messi. Una estenuante maratona di scemenze e luoghi comuni, ma anche una sbalorditiva, disarmante incapacità della stragrande maggioranza di quella esigua minoranza che ha capito qualcosa (o crede di averlo capito) di argomentare nei riguardi di chi non ha ancora capito niente. Esattamente quello che mi aspettavo.

Ora, quello che speravo di avervi trasmesso, in tanti anni, era anche e soprattutto il senso di quanto profonde siano le radici del male, di quale battaglia sia necessario combattere sul piano culturale, prima ancora che politico, per costruire un minimo di coscienza dei processi in atto. Essere riusciti ad arrivare dove siamo è il primo passo per l'affermazione di un minimo di pluralismo nel dibattito. Ma un dibattito vero ancora non c'è stato: ne stiamo appena costruendo le premesse. Il fatto che alcuni di voi, nel loro eguccio più o meno ipertrofico, siano profondamente convinti di qualcosa che nella maggior parte dei casi, peraltro, non hanno nemmeno capito perché non riescono a ripeterla in modo convincente, non fa di essi una maggioranza. Essere convinti delle proprie idee è condizione necessaria di un'azione politica, ma è largamente non sufficiente. In politica non basta che siamo convinti noi: occorre che siano convinti anche gli altri!

Che i fascisti di Casapound, nel nobile intento di salire dallo 0,x% allo 0,y% (con y poco maggiore di x) urlino e strepitino che noi abbiamo traditooooh, che siamo diventati europeisti, e che quindi bisogna votare per loro perché sono puri e duri, io, questo, lo capisco, e lo guardo (dall'alto, perché ora sono in alto) con simpatia e umana solidarietà. Ma, appunto: loro sono fascisti! Da loro, certo, mi aspetto che ragionino come un federalista qualsiasi, come uno dei tanti (Albertini, Prodi, Spinelli, Padoa Schioppa...) che hanno apertamente teorizzato la necessità che la maggioranza sia guidata da una eletta minoranza. Casapound è il degno pendant di quegli intellettuali di princisbecco che oggi ci spiegano come la democrazia, signora mia, sia tanto sopravvalutata: quindi, averli contro non mi preoccupa!

Mi preoccupa di più chi dice di aver aperto gli occhi grazie a questo blog, ma poi viene qui a esprimere la sua frustrazione perché la Lega non ragiona come Aristide!

Ci dispiace, cari "tuttosubitisti non di Casapound" (posto che ve ne siano): non siamo fascisti come Casapound, e non siamo fascisti come la sinistra: per noi la democrazia esiste, e quindi la maggioranza va rispettata, come va rispettato il suffragio universale, nonostante ci veda al 17%, non al 100% (dove ci dipingete voi per i vostri ovvi motivi tattici). Ci dispiace molto anche per il prossimo lutto che dovrete elaborare, il più doloroso: perché tutto questo strepito, frutto di poca intelligenza o di molta furbizia, il cui unico esito dovrebbe essere quello di indebolirci nel momento in cui, in effetti, sarebbe più razionale rafforzarci (visto che qualcosa stiamo facendo, e altro faremo), avrà un diverso risultato: quello di mettervi per l'ennesima volta di fronte alla pochezza dei vostri numeri. Mentre voi sbraitate, spostando al più decimali come un volenteroso carnefice di Bruxelles, nel restante 95% degli italiani, quelli che ancora se ne strabattono del tema Europa, perché non lo capiscono, perché nessuno (tanto meno voi) è stato in grado di presentarglielo, o perché a loro sta bene così, cresce il numero di quelli che sentono parlare Garavaglia o Molinari e si dicono che in fondo noi leghisti non siamo così male, considerando l'alternativa.

Quindi, cari tuttosubitisti, le vostre grida dicono molto di voi, e poco di noi. Purezza e durezza sono due qualità insidiose, soprattutto la seconda! C'è il forte rischio che dalla coscienza si trasferisca al cervello: la cloaca di Twitter pullula di esempi! Io, qui, ho esercitato il massimo sforzo per farvi capire che la democrazia conta, e democrazia significa anche reciprocità. Quelli per cui la democrazia funziona solo quando va come dicono loro, ve lo ricordo, sono i piddini. Noi siamo diversi. Dobbiamo convivere col fatto che la maggioranza degli italiani non ha votato per noi, e continuiamo a portare avanti un'azione politica coerente con il nostro disprezzo verso un progetto che disprezza la democrazia: coerenza quindi vuole che non siamo noi stessi i primi a disprezzarla.

So che vi sembra difficile: alcuni di voi sono tecnicamente fascisti, quindi se non ci arrivano sono giustificati. La democrazia non è affar loro, e va bene così (soprattutto perché non hanno i numeri per cambiare le cose). Altri, semplicemente, non sono molto brillanti. Una di quelle che sbraita di più su Twitter in questi giorni credo di averla conosciuta a un mio incontro pubblico. Mi ricordo che dal pubblico strepitava a ogni intervento del mio interlocutore, mettendomi in seria difficoltà: interrompendo il mio avversario mi faceva perdere il filo, impedendomi di confutarlo, oltre a screditarmi facendomi passare per il guru di una setta di invasati privi delle più elementari nozioni di civiltà e di buona educazione (uno spin che piace alla stampa che piace... solo a se stessa!). Non sono stupito che ora continui a fare sostanzialmente lo stesso lavoro nella piccola bolla di Twitter (che, vorrei ricordarvelo, non è il mondo reale).

Allora: si è fatto tardi, nel frattempo è iniziato l'anno nuovo, e vorrei riassumere: qui il problema da risolvere, a monte, non è se vi piaccia o meno l'Europa, ma se vi piace o meno la democrazia. Se il vostro rifiuto dell'attuale progetto europeo deriva, come il mio, dal vostro amore per la democrazia, allora cercate di essere coerenti con voi stessi, e invece di interrogarvi su come realizzare contro la volontà della maggioranza progetti politici più o meno fondati, o sul perché avendo il 17% dell'elettorato non abbiamo realizzato una cosa che non è nel contratto di governo (risposta: perché non è nel contratto di governo e perché non siamo al 51%), cercate di sostenerci nel nostro sforzo di incidere sul dibattito culturale e politico, cosa che con il nostro 17% stiamo facendo con qualche risultato.

Altrimenti vorrà dire che non sono riuscito a farvi capire niente, ma va bene così: tutti siamo utili, ma nessuno indispensabile.

Neanche voi, nonostante siate non il 17%, ma addirittura il 100%... di voi stessi!

Buon anno!


(...a proposito: come vi sembrano, ora, le interviste di settembre?...)

(...sono troppo stanco per rileggere: rileggete voi. Anzi: rileggeste voi...)