lunedì 30 aprile 2018

Ancora sui disallineamenti

Come avrete notato, in un momento in cui il Parlamento, e quindi la politica, sembra riacquistare una certa centralità, in diretta conseguenza del fatto che la mancanza di una maggioranza definita impedisce di confinarlo a quella funzione meramente notarile, di ratifica degli atti governativi, cui viene dato il rassicurante nome di governabilità, sono partiti sui vari media attacchi tesi a delegittimarlo. Noi politici, si dice, staremmo scaldando la poltrona: ci saremmo guadagnati il primo stipendio senza far nulla, ecc.

Non entro (perché non ho tempo) in tutto quello che ho fatto in questo mese: se vi interessa, farò un post a parte. Non entro nemmeno (per lo stesso motivo) in quanti soldi mi sono entrati in tasca: ricordo solo che il buon Serendippo parlava di un incremento del 600% del mio stipendio (che avrebbe significato, a spanna, arrivare a 20.000 netti al mese). Posso rassicurarlo: siamo molto al di sotto di questo obiettivo. Mi chiedo solo perché chi si preoccupa tanto degli stipendi dei politici non si preoccupi altrettanto di quelli degli eurocrati o dei funzionari di altre organizzazioni sovranazionali, che svolgono funzioni di indirizzo politico senza essere stati eletti da nessuno e senza pagare tasse a nessuno (ogni riferimento a nomine recenti è puramente intenzionale), o di quelli dei consiglieri delle società pubbliche partecipate, o di quelli dei magistrati (gli unici sfuggiti al congelamento delle retribuzioni nel comparto della pubblica amministrazione per il semplice motivo che erano gli unici a poter dare ragione a se stessi in un tribunale, come qui spiega un collega).

Chissà perché questa attenzione (o, se volete, disattenzione) selettiva?

Già, chissà...

In effetti, oltre a tutto il resto, in questi giorni sto anche chiudendo alcuni lavori che ho ereditato dalla mia vita precedente. In uno (veramente, in due, ma nell'altro ho due coautori) mi sto preoccupando del solito problema: dell'impatto sulla nostra produttività di un cambio sbagliato per la nostra economia. L'argomento non è nuovo ai lettori di questo blog. Lo introdussi in un post di quasi cinque anni fa, da cui trassi svariati articoli scientifici: il primo, del 2016, ha avuto l'onore di essere citato da Zingales, il secondo è qui, e il terzo (l'unico ad accesso libero per i non addetti ai lavori - cioè per i non iscritti alle riviste specializzate) è qui. Nel lavoro che sto concludendo modifico leggermente approccio: invece di considerare l'impatto sulla produttività del tasso di cambio, considero quello dello scostamento del cambio dal proprio valore di equilibrio.

Il modello post-Keynesiano si basa sull'idea che la domanda stimoli l'offerta: sono le aspettative di domanda (e non il tasso di interesse) a indurre gli imprenditori a investire (cioè ad acquistare macchinari, attrezzature, mezzi di trasporto ecc.), ed è il "tiro" della domanda a stimolare la produttività: un'idea vecchia quanto l'economia, visto che come voi sapete (e i miei colleghi, anche quelli che si scoprono il capo ostentando deferenza al nome di Sylos-Labini, non sanno) è stata introdotta in letteratura da Adam Smith. Ora, se il tasso di cambio cresce, normalmente questo deprime la domanda: i prodotti nazionali diventano più cari per gli acquirenti esteri, le esportazioni rallentano, e la produttività ristagna, in un processo di causazione circolare e cumulativa. Tuttavia, può anche capitare che la crescita del cambio sia associata a (o causata da) una crescita della produttività (questa è l'obiezione di Zingales al mio lavoro). Se il cambio sale, ma sale anche la produttività, la competitività di prezzo in linea di principio potrebbe restare invariata: infatti, è vero che per l'acquirente estero, a parità di prezzo nazionale, il bene nazionale costa di più, ma è anche vero che siccome i lavoratori sono diventati più produttivi, il costo del lavoro per unità di prodotto scende (uno stesso salario si "spalma" su più prodotti) e quindi il prezzo del bene nazionale in valuta nazionale può scendere. Può quindi darsi che questa discesa del prezzo in valuta nazionale sul mercato interno compensi l'aumento del prezzo della valuta per l'acquirente estero, dando come risultato un uguale prezzo in valuta estera sui mercati internazionali.

La morale di questa favola (per chi non si è perso: ma siccome a nessuno fa piacere far brutta figura, farete tutti finta di aver capito cosa è successo...) è che più che i movimenti in alto o in basso del cambio, contano gli scostamenti dall'equilibrio. Un paese con forte produttività può essere competitivo anche con un cambio "alto" (o in crescita), e un paese con debole produttività può essere non competitivo anche con un cambio "basso" (o in calo). Ovviamente, nel calcolare gli scostamenti del cambio dall'equilibrio si tiene conto, appunto, del divario fra la produttività del paese e quella dei suoi concorrenti, e di un paio di altre cosucce, come abbiamo visto un paio di anni or sono. Nell'articolo sull'uscita dell'Italia dall'eurozona avevo applicato uno di questi approcci (il BEER) per stimare di quanto si sarebbe apprezzata o deprezzata la nuova valuta italiana in seguito a uno sganciamento dall'euro. Nel frattempo, un gruppo di colleghi francesi che lavora presso il CEPII ha redatto EQCHANGE, un database che riporta le serie degli scostamenti del cambio dal proprio valore di equilibrio per oltre cento paesi, a partire dal 1973. Se vi interessa, potete iscrivervi e scaricarlo.

Qui mi limito a riportare un grafico costruito con due serie estratte dal database:

Nel grafico vedete gli scostamenti del tasso di cambio dal proprio valore di equilibrio per due paesi: Germania e Italia. La linea orizzontale (per gli amici: le ascisse) corrispondono a zero scostamento, cioè a una situazione di equilibrio. Sotto l'equilibrio la valuta è sottovalutata (cioè favorisce indebitamente le esportazioni), sopra è sopravvalutata (e quindi penalizza indebitamente le esportazioni). Com'è andata mi pare si capisca. Secondo queste stime, negli anni '70 l'Italia aveva una valuta piuttosto sottovalutata (intorno al -15%) e la Germania relativamente sopravvalutata (attorno al 5%). L'adesione allo SME nel 1979 ci riporta in equilibrio, e lo SME "credibile" (quello senza periodiche revisioni della parità) ci porta in territorio positivo: una sopravvalutazione cui rimediamo con la svalutazione del 1992. Il resto è piuttosto ovvio: con l'entrata nell'euro, la nostra valuta (appunto: l'euro) diventa progressivamente sempre più forte per noi, toccando punte di sopravvalutazione del 15%, fino alla gigantesca "svalutazionecompetitiva" predisposta da Draghi nel 2014, della quale ora paghiamo le conseguenze (sapete che qui abbiamo previsto l'una e le altre) sotto forma di ritorsioni da parte degli Stati Uniti. La situazione tedesca è quasi speculare. Dico "quasi", perché in effetti per capire come si sono sviluppati i rapporti fra noi e la potenza egemone conviene prendere lo scarto fra le due serie, cioè lo scostamento fra gli scostamenti dall'equilibrio:


Qui si vede meglio cosa sta succedendo. La tendenza "secolare", interrotta dal riallineamento del 1992, è quella di un indebolimento relativo del marco/euro rispetto alla lira. Anche alla fine della storia, quando noi ci troviamo sottovalutati (come si vede nel primo grafico), la Germania è più sottovalutata di noi,  e quindi resta "sottoprezzata" per sul mercato italiano. Certo: per la Germania l'euro è debole perché la Germania è forte (in un certo senso che i lettori qui hanno imparato a comprendere). Ma il punto resta! Il fatto che questo grafico, invece di oscillare attorno allo zero, manifesti una tendenza negativa ci dice, di per sé, che un mercato non sta funzionando: quello della valuta, che oggi non funziona... perché non c'è! Ci siamo chiesti mille e una volta perché i "libbbberali" vedano nell'abolizione di un mercato una cosa buona e giusta. Forse perché sono scemotti a libro paga, che di Smith hanno solo sentito il nome in qualche corso di Istituzioni di economia politica di qualche facoltà minore (se pure...). In ogni caso, il punto di fondo è sempre lo stesso, e tale resta: accordi irrazionali non sono benefici per nessuno. E se ne volete una riprova, considerate che Deutsche Bank si è fumata in pochi anni oltre 10 miliardi di aumenti di capitale e non gode di ottima salute.

Anche i ricchi piangono, a quanto pare, soprattutto perché sono poveri.

Quindi, a chi mi chiede se usciremo dall'euro, io continuo a ripetere quello che dissi a un giornalista particolarmente poco piacevole la prima volta che andai in televisione, molti anni fa: questo è un falso problema, perché sarà l'euro a uscire da noi. I numeri per una soluzione politica ad oggi non ci sono, ma stanno diventando sempre più grandi, esattamente come stanno diventando sempre più grandi le cifre necessarie per tenere insieme la baracca. Non ci voleva quel genio di Stiglitz per suggerirci che un giorno i costi supereranno i benefici.

Intanto, godiamoci il seguito della telenovela...







(...ah, fedele allo spirito di questo blog, come vedete, non vi parlo di cronaca, ma una cosa ve la dico: sono umanamente - prima che politicamente - molto contento...)

(...ovviamente questa modifica metodologica, che tiene conto dell'osservazione di Zingales, non altera in nulla i risultati dei precedenti studi: la sopravvalutazione - rispetto all'equilibrio - deprime la dinamica della produttività. Non c'è niente da fare: se una moneta è sbagliata, è sbagliata...)

domenica 22 aprile 2018

QED 88: la spesa pubblica logora chi non la fa

Nel post precedente avevo menzionato questa vicenda, sulla quale avevo avuto modo di intrattenermi col sindaco Massimi e stavo cercando di capire cosa fosse possibile fare. La situazione è molto complessa da riassumere, ma, banalizzando, per decreto di Gentiloni la strada in questione, che ora mi pare sia provinciale, sta per tornare sotto la gestione dell'ANAS, in tempi che da un primo contatto con l'ANAS mi è sembrato di capire fossero piuttosto incerti (il decreto è all'analisi della Corte dei conti, mi è stato detto, e presumo che questo sia uno snodo necessario della procedura), ma comunque tali da non prevedere la possibilità di un intervento risolutivo prima della stagione turistica estiva (a quanto capisco occorrerà fare uno stato di consistenza, poi l'ANAS si prenderà in carico la strada, poi bisognerà dare in appalto i lavori con il nuovo codice, quello che, come molti amministratori che ho incontrato lamentano, e come qui autorevolmente conferma un rappresentante della stessa ANAS, di fatto paralizza l'azione di governo del territorio in nome del castacriccacoruzzione - cioè del pregiudizio razzista verso il nostro paese, che porta a considerare ogni amministratore corrotto fino a probatio diabolica del contrario, ed eleva a unica priorità politica di cartapesta, da dare in pasto ai gonzi, in un paese che ha ben altre urgenze, la lotta al babau metafisico della "corruzione").

Oggi, salendo a Barrea per ossigenarmi prima delle prossime ignote sfide, scattavo queste foto, e poco fa il sindaco Massimi mi ha dato questa notizia.

Ai parenti della vittima vanno le mie più sincere, rispettose e profonde condoglianze.

Agli altri ricordo che l'Italia non ha un problema di spesa pubblica eccessiva, il che significa, in buona sostanza, che interventi di manutenzione ovvi, e in questo come in tanti altri casi richiesti con forza dagli amministratori locali (sui quali incombono pesanti responsabilità in circostanze simili), si potrebbero fare anche prima che accada l'evitabile.

Ma perché questa mia indicazione si traduca in prassi politica, rendendo possibile una corretta gestione dei territori (che chi ci vive saprebbe come impostare, in assenza di vincoli "europei"), occorre che prima venga sconfitta l'incultura e l'inciviltà di chi porta nel dibattito dati falsi, sproloquiando di tagliare la spesa, e diffonde un'immagine pregiudizialmente negativa di un paese fatto di gente operosa e onesta. Se per offrire un rinfresco da pochi euro a chi partecipa a un seminario universitario devo farmi fare tre preventivi da ditte iscritte al MEPA, posso solo vagamente immaginare quale incubo sia per un amministratore dare in appalto la manutenzione di un tratto di strada (ma poi, lo Stato non potrebbe provvedere con sue strutture, se vede negli appalti una fonte certa di corruttela?). I miei colleghi senatori della Lega, molti dei quali sindaci, mi stanno aiutando a colmare la distanza fra la teoria, dove la spesa pubblica è una lettera (G), e la pratica, dove è un incubo burocratico partorito dalla mente di politici non sempre esattamente allineati all'interesse del paese. Alla fine, strozzare la spesa in nome della Sacra Lotta alla Corruzione è anche uno dei tanti modi per raggranellare (non spendendola) quella liquidità che poi in qualche caso prende le strade che sappiamo. Credo che sia importante una riflessione approfondita su quali siano le nostre priorità. Speriamo di avere presto l'occasione di farla in modo costruttivo.



(...se la priorità fosse tagliare la spesa, qualcuno dovrebbe spiegarmi perché la si realizzerebbe comprando tramite Consip prodotti che sul libero mercato costano meno. Ma forse sono io che non ci arrivo: si vede che anch'io sono marcio e corrotto dentro...)

sabato 14 aprile 2018

Fake wars

E così è accaduto l'evitabile.

Non che ci fossero molti dubbi. Non mi soffermo sulla cronaca: siete più informati di me, e a me informarmi interessa poco, per il semplice motivo che ogni giorno di più ho riprova di quanto desolante sia il panorama dell'informazione. Il casus belli resta dubbio, come lo fu in decine di occasioni precedenti, e quello che permetterebbe ex ante di capire quanto poi tutti capiscono ex post è una virtù apparentemente rara: un minimo di orecchio musicale.

Fa anche sorridere questo modo di fare la guerra: ci si mette d'accordo prima su quale obiettivo colpire e su quali missili tirare giù, si spendono un po' di soldi così, for the sake of show, o per quello sport tipicamente maschile che consiste nel misurarselo. Naturalmente per riparare le strade i soldi non si possono spendere: però per tirare qualche fischiabbotto sì. Si chiama keynesismo bellico, e in fondo è sempre esistito. Fare la guerra per finta con le armi vere è stato a lungo considerato una pratica nobile, e aveva anche allora un certo indotto economico, anche se, ogni tanto, le cose andavano storte, creando problemi veri. In questo caso, per esempio, se a qualcuno saltassero i nervi (ma non salteranno), potremmo morire. Ora, questa, mi rendo conto, è una prospettiva poco piacevole per il weekend, ma mi preoccupa poco, non tanto perché è anche poco probabile, ma soprattutto perché quello che mi sbigottisce, più che la prospettiva eventuale di una fine prematura, è la constatazione desolante di quanto siano imbecilli i nostri cosiddetti simili! Come si fa, come si fa, dico, a prendere per oro colato certe messe in scena, o, almeno, a non sospettare, dopo tanti precedenti, che certi fatti riportati come assodati dai giornali (ma non dalle fonti ufficiali) possano essere una messinscena?

Evidentemente la maggioranza dei nostri cosiddetti simili non ha condiviso il percorso che qui abbiamo affrontato grazie all'associazione a/simmetrie, l'unico esperimento di think tank che ha cercato di raccogliere in un luogo di elaborazione e di scambio reciproco competenze nei due rami così strettamente interconnessi dell'economia e della comunicazione. La prossima tappa del nostro percorso è questa qui:


Ci vedremo a Roma, fra esattamente una settimana, per presentare la seconda edizione del libro di Marcello Foa, vicepresidente di a/simmetrie e esperto di comunicazione, in compagnia di Vladimiro Giacché, che da un'altra prospettiva, e con un altro testo, anch'esso alla seconda edizione, ha affrontato, ben prima di certi cialtroni che ancora per poco vedremo aggirarsi sui social o nel cosiddetto palazzo (dal quale gli elettori li hanno scalzati), questo tema cruciale per la nostra democrazia.

Nei due libri che ho citato ci sono tutti gli anticorpi per difendersi dalle insidie di chi fabbrica menzogne al servizio dei governi (nessuno escluso), e da chi le convalida atteggiandosi a tuttologo indipendente. Li considero una lettura imprescindibile per chi voglia dare un contributo serio alla vita politica del paese, a qualsiasi livello intenda farlo. Purtroppo, per avere la presenza de laggente (voi), ho dovuto scegliere una data nella quale lacasta (noi) sono nei loro collegggi. Molti colleghi hanno espresso il rammarico di non poter partecipare. Organizzeremo altre presentazioni...

Ne approfitto per ricordarvi una cosa. Il dibattito sulle fake news, quello vero (non quello orchestrato dai pagliacci che vogliono imporci la loro censura fascista con la scusa che sui social si dicono le parolacce!), in Italia esiste, esattamente come quello sull'euro, solo perché esiste a/simmetrie. Io ora ho, per qualche tempo, una diversa opportunità di portare una voce di ragionevolezza nel dibattito, e, come avete visto, ne sto approfittando. Ma questa opportunità è soggetta a scadenza: non so quanto durerà, né come terminerà. Se volete mantenere in vita il dibattito, dovete mantenere in vita a/simmetrie.

Potete farlo in molti modi, e ce n'è uno, in particolare, che non vi costa nulla: devolvere all'associazione il vostro 5x1000.

Ricordate: la libertà non è gratis. Non è detto che costi sempre la vita (anche perché, con buona pace di Catone, della libertà, da morto, te ne fai poco...), ma almeno una firma su un modulo che tanto dovete firmare credo di potervela chiedere. Se poi, oltre a quella, voleste anche offrire non tanto a me (che ora lo prendo alla buvette al prezzo di 80 centesimi di euro - gli strabilianti privilegi della casta!), ma allo staff di a/simmetrie un caffè a settimana (non al giorno!), visto che qui siete 4518, raccoglieremmo 234936 euro. Sono più di quelli che abbiamo raccolto e che ci sono comunque riusciti ad arrivare a fine anno nel 2017, ma questo solo perché stiamo operando a ranghi ridotti, e in particolare non abbiamo ancora riassunto un ricercatore.

Ma di questi progetti vi parlerò in modo più organico con calma. Ora devo partire verso il profondo Nord, dove ho tanti amici, e domani sarò a Verona al Vinitaly, inaugurato dal presidente Alberti Casellati, in compagnia della mia nuova amica lacasta, e per trovare alcuni vecchi amici: amici di prima del 4 marzo, per capirci, i quali oltre alla lungimiranza hanno anche un'altra virtù: fanno il vino buono!

Qualcuno di voi so già che lo incontrerò. Gli altri... sarà per un'altra volta!

mercoledì 11 aprile 2018

Aula

Per puro caso eravamo usciti in tre dall'ingresso di palazzo Madama: Matteo Salvini, Stefano Candiani, ed io, proprio mentre l'illustre collega scendeva dal suo taxi. Salutato Matteo, che per non farsi mancar nulla fra una votazione e una consultazione andava a Bari, mi avvicinavo all'illustre collega, e nella sua lingua (che non vi dirò quale fosse) esordivo: "Quale magnifica occasione per lei! Ha appena visto lo stato maggiore dei populisti: Matteo Salvini, il vicecapogruppo, e l'eminenza grigia, che poi sarei io. Sono lieto di averle potuto offrire questo colpo d'occhio. Posso offrirle anche un caffè? Andiamolo a prendere dentro...". Lui: "In quella che chiamate la buvette?" Io: "Certo. Perché chiamiamo le cose col loro nome".

Mentre facevo strada (ormai me la cavo: ho chiesto ai gentili commessi di non aiutarmi, per riavvicinarmi alla durezza dell'orientarsi in quel labirinto, e ha funzionato...) evocavamo comuni amici... che anche voi conoscete e che non sospettereste mai! Squilla il telefono. "Stefano!" "Alberto, il capogruppo del PD ha chiesto di intervenire in aula sulla Siria. Vuoi fare l'intervento per il nostro gruppo?" "Ma... sono con l'illustre collega! Fra quanto?" "Tre quarti d'ora!" "Va benissimo!"

Con passo spedito ci dirigevamo alla sala Pagoda (una delle tante dritte della mia "fatina": ma non penso che dovrei dirvi che così chiamiamo gli anziani che ci aiutano... fate finta di non averlo letto...), occupata da una gentile assistente altrui, in cerca di una presa per ricaricare il cellulare (va detto che non ce ne sono moltissime, ed è meglio così). "Disturbiamo?" "No, certo, senatore, anzi, se avete bisogno di riservatezza..." "No, guardi, non dobbiamo dirci niente di segreto..." (e soprattutto, pensavo io, lo diremo in leuropeo, per cui il problema in nuce non si porrà).

Inutile che vi faccia tutto il discorso.

Ma poter dire, con uno splendido sorriso, un po' narquois, e in una eccellente lingua (sua), a chi pensava di trovarsi di fronte un becero demagogo: "Vede, caro collega, io sono post-Keynesiano, e questo temo mi dia un certo vantaggio, perché quando lei nel 1991 sosteneva che in una unione monetaria i saldi delle partite correnti non contano, il mio maestro, Tony Thirlwall, affermava con grande forza il contrario. Ora, qualche anno dopo, siamo tutti d'accordo, nel senso che oggi lei è d'accordo con Tony [lui annuiva...]. Quindi, questo significa che abbiamo un problema. Sta a quelli come noi, che parlano la stessa lingua, non solo in senso proprio, ma anche in senso tecnico, evitare che questa cosa diventi un disastro, ne conviene? Perché vede, il fatto che lei venga qui a informarsi di cosa sia la politica italiana, il fatto che la politica italiana sia per lei di difficile lettura, come, per altri versi, per me lo sia quella del suo paese, implica solo una cosa: che una politica europea in quanto tale non potrà mai darsi, se non altro perché, come mi fu facile prevedere nel 2013, la si dovrebbe praticare nella lingua del paese che nel frattempo si è tirato fuori dal progetto. E questo è significativo, non trova? Quindi chi vede in una politica "europea" la soluzione dei nostri mali evidentemente è molto ingenuo, ma questo solo nella migliore delle ipotesi... Qui europei lo siamo tutti, o per lo meno lo sono io, altrimenti le parlerei in una lingua terza. E allora dovremmo preoccuparci di quello che disse Feldstein: l'aspirazione francese all'uguaglianza contrasta col desiderio tedesco di egemonia". Lui: "Foreign Affairs 1997". Io: "Non mi aspetterei mai di dover insegnare qualcosa a chi mi è maestro: ero certo che fosse a conoscenza di questo lavoro". Lui: "Quando uscì gli ridemmo tutti dietro". Io: "Oggi ridete di meno".

E tanto altro che vi immaginate...

Poi il tempo a mia disposizione è terminato: il mio tempo non mi appartiene.

Ho accompagnato l'illustre confratello all'uscita, e son tornato nella sala, cercando di riordinare le idee. Ma non ne ho avuto il tempo: un messaggio di Stefano mi sottraeva anzitempo alla piacevole presenza dell'assistente di cui non ricordo il nome (sì, io ho questo limite, che in politica è un disastro), e forse è stato meglio così:


Serendippo noterà che ho sbagliato un participio. Capita. Ma l'emozione non c'entra. L'emozione è quando fai cose difficili, cose veramente europee. Dire ai piddini che il loro idolo, Tony Blair, è molto più simile a un criminale di guerra che a un autorevole opinionista, e soprattutto dirglielo in modo che non lo capiscano subito, restando cheti e mogi sui loro banchi, per quanto non abbia prezzo, è cosa piuttosto agevole. Il difficile è arrivare lì dove puoi dirglielo, o dove puoi amabilmente prenderti gioco dell'illustre collega che viene a vedere se hai l'anello al naso, e al quale puoi con delicatezza ricordare quale gigantesca cantonata abbia preso, e quindi, chissà, verosimilmente continui a prendere (il ministro delle finanze europeo!? Ma che davéro!?). E per questo, per avermi fatto arrivare lì, oggi vorrei una volta di più ringraziarvi. Oggi me la sono proprio goduta: è solo l'inizio, e so di doverlo a voi, e a Matteo Salvini. Vae victis!

"Perché noi siamo tecnici", gli ho detto congedandolo, "e quindi, da tecnici, sappiamo come andrà a finire, e dobbiamo tenerne conto, o no?"

Prendete ad esempio me: nel 2011 sapevo che l'austerità avrebbe portato al potere la cosiddetta destra, e quando ho sentito il bisogno di schierarmi con quella mi sono schierato, non tanto perché non mi piace perdere (in effetti non mi piace molto), quanto perché avevo sperimentato per sette anni che con gli altri non avrei mai avuto la libertà di dire quello che ho detto oggi (mi spiace per l'amico Giorgio), né quello che dirò domani, cioè, in definitiva, non avrei avuto la libertà di essere me stesso (con giudizio). Ora sono con persone brave e preparate che vogliono cambiare il paese. Forse avrei dovuto decidermi prima. Recupereremo il tempo perduto (o perso...).


(...ah, c'è anche una bonus track col neoborbonico...)

A piddino che fugge...

(...oggi, in aula, mentre tornavo dalla votazione, mi è venuto in mente, chissà perché - io lo so ma non lo dico - questo passo...)


Dans les années 1812 et 1813, on l’accusait tout haut. L’Empereur en était mécontent, et dans un livre d’histoire, récemment écrit par ordre supérieur, Koutouzow est représenté comme un courtisan intrigant et fourbe, tremblant même au seul nom de Napoléon, et capable d’avoir empêché, par ses doutes, les troupes russes de remporter à Krasnoé et à la Bérésina une éclatante victoire. Tel est le sort de ceux qui ne sont pas proclamés de « grands hommes », tel est le sort de ces individualités isolées qui, devinant les desseins de la Providence, y soumettent leur volonté : la foule les punit d’avoir compris les lois supérieures qui régissent les affaires de ce monde en déversant sur elles le mépris et l’envie.
Chose étrange et terrible à dire ! Napoléon, cet infime instrument de l’histoire, est pour les Russes eux-mêmes un sujet inépuisable d’exaltation et d’enthousiasme : il est « grand » à leurs yeux. Mettez en parallèle Koutouzow, qui, du commencement à la fin de 1812, de Borodino à Vilna, ne s’est pas une fois démenti, ni par une action, ni par une parole, qui est un temple sans précédent de l’abnégation la plus absolue, qui pressent, avec une si rare clairvoyance, dans les événements qui se passent autour de lui, l’importance qu’ils doivent avoir pour l’avenir. Koutouzow est représenté par eux comme un être incolore, digne tout au plus de commisération, et ils ne parlent plus souvent de lui qu’avec un sentiment de honte mal déguisée !… Et cependant, où trouver un personnage historique qui ait tendu vers un seul et même but avec plus de persévérance, et qui l’ait atteint d’une manière plus complète et plus conforme à la volonté de tout un peuple ?
Il n’a jamais parlé des « quarante siècles qui regardaient ses soldats du haut des Pyramides », des sacrifices qu’il avait faits à « la patrie, de ses intentions et de ses plans » ! Encore moins parlait-il de lui-même. Il ne jouait aucun rôle : à première vue, c’était un homme tout rond, tout simple, ne disant que des choses tout ordinaires. Il écrivait à ses filles, à Mme de Staël, lisait des romans, aimait la société des jolies femmes, plaisantait avec les généraux, les officiers, les soldats, et ne contredisait jamais une opinion contraire à la sienne. Lorsque le comte Rostoptchine lui adressa des reproches tout personnels pour avoir abandonné Moscou, en lui rappelant sa promesse de ne pas le livrer sans bataille, Koutouzow lui répondit :
« C’est ce que j’ai fait. » Et cependant Moscou était déjà abandonné ! Lorsque Araktchéïew vint lui dire de la part de l’Empereur qu’il fallait nommer Yermolow commandant de l’artillerie, Koutouzow répondit :
« C’est ce que je venais de dire, » bien qu’un moment avant il eût dit tout le contraire ! Que lui importait à lui, qui, seul au milieu de cette foule inepte, se rendait compte des conséquences immenses de l’événement, que ce fût à lui ou au comte Rostoptchine qu’on imputât les malheurs de la capitale ? et que lui importait surtout la nomination de tel ou tel chef d’artillerie ?
Dans ces circonstances, comme dans toutes les autres, ce vieillard, arrivé par l’expérience de la vie à la conviction que les paroles ne sont pas les véritables moteurs des actions humaines, en prononçait souvent qui n’avaient aucun sens, les premières qui lui venaient à l’esprit. Mais cet homme qui attachait si peu d’importance à ses paroles, n’en a jamais prononcé une seule, pendant toute sa carrière active, qui ne tendît au but qu’il voulait atteindre. Involontairement cependant, et malgré la triste certitude qu’il avait de ne pas être compris, il lui est arrivé plus d’une fois d’exprimer nettement sa pensée, et cela dans des occasions bien différentes les unes des autres. N’a-t-il pas toujours soutenu, en parlant de la bataille de Borodino, première cause des dissentiments entre lui et son entourage, que c’était une victoire ? Il l’a dit, il l’a écrit dans ses rapports et répété jusqu’à sa dernière heure. N’a-t-il pas aussi déclaré que la perte de Moscou n’était pas la perte de la Russie ? et, dans sa réponse à Lauriston, n’a-t-il pas affirmé que la paix n’était pas possible, du moment qu’elle était contraire à la volonté nationale ? N’a-t-il pas été le seul, pendant la retraite, à envisager nos manœuvres comme inutiles, persuadé que tout se terminerait de soi-même, mieux que nous ne pouvions le désirer ; qu’il fallait faire à l’ennemi « un pont d’or » ; que les combats de Taroutino, de Viazma, de Krasnoé étaient inopportuns ; qu’il fallait atteindre la frontière avec le plus de forces possible, et que pour dix Français il ne sacrifierait pas un Russe ? Lui, qu’on nous dépeint comme un courtisan mentant à Araktchéiew afin de plaire à l’Empereur, est le seul qui, à Vilna, ait osé dire tout haut, en s’attirant ainsi la disgrâce impériale, que la continuation de la guerre au delà des frontières était fâcheuse et sans objet. Il ne suffît pas d’ailleurs d’affirmer qu’il comprenait l’importance de la situation ; ses actes sont là pour le démontrer : il commence par concentrer toutes les forces de la Russie avant d’en venir aux mains avec l’ennemi, il le bat, et le chasse enfin du pays, en allégeant, autant qu’il lui était possible, les souffrances du peuple et de l’armée. Lui, ce temporiseur dont la devise était : « temps et patience, » lui, l’adversaire déclaré des décisions énergiques, il livre la bataille de Borodino en donnant à tous les préparatifs une solennité sans exemple, et soutient ensuite, contre l’avis des généraux, malgré la retraite de l’armée victorieuse, que la bataille de Borodino est une victoire pour la Russie, et insiste sur la nécessité de ne plus en livrer d’autres, de ne pas commencer une nouvelle guerre, de ne pas franchir les frontières de l’Empire !
Comment ce vieillard a-t-il pu, en opposition avec tout le monde, deviner aussi sûrement le sens et la portée des événements, au point de vue russe ? C’est que cette merveilleuse faculté d’intuition prenait sa source dans le sentiment patriotique, qui vibrait en lui dans toute sa pureté et dans toute sa force. Le peuple l’avait compris, et c’était ce qui l’avait amené à réclamer, contre la volonté du Tsar, le choix de ce vieillard disgracié comme le représentant de la guerre nationale. Porté par cette acclamation du pays à ce poste élevé, il y employa tous ses efforts, comme commandant en chef, non pour envoyer ses hommes à la mort, mais pour les ménager et les conserver à la patrie !
Cette figure simple et modeste, et par conséquent « grande » dans la véritable acception du mot, ne pouvait être coulée dans le moule mensonger du héros européen, du soi-disant dominateur des peuples, tel que l’histoire l’a inventé !… Il ne saurait y avoir de « grands hommes » pour les laquais, parce que les laquais entendent mesurer les autres à leur taille ! 


(...naturalmente anche qui avremo dei mécontents. Ma il popolo ha capito, e chi c'era lo sa...)

martedì 10 aprile 2018

La porta principale

Credo ricordiate la mia prima audizione parlamentare:


che divenne il mio post di fine anno del 2013. La facile previsione espressa (l'Italia non sarebbe riuscita a ottenere nulla dal tanto strombazzato semestre di Presidenza dell'UE) si è poi realizzata ad abundantiam (basti pensare che è in quel periodo che i nostri solerti governanti negoziarono la BRRD, cioè, per gli amici, il bail in, che tante soddisfazioni ci ha dato...), ma non era di questo che volevo parlarvi.

Alla fine dell'audizione, come forse vi avrò detto, o forse no, il commesso che mi aveva accompagnato nell'aula della Commissione, e che aveva assistito a tutta l'audizione, mi riaccompagnò all'ingresso secondario dal quale ero entrato. Con inatteso fervore, e con quella familiarità, quella lunga consuetudine, che mi unisce ai miei lettori, e che consente loro, quando mi vedono, di entrare in argomento come si riprende una conversazione da poco interrotta, mi si rivolse dicendo più o meno così: "Professore, la ringrazio, sono felice che finalmente i parlamentari abbiano potuto sentire le cose come stanno: è una cosa molto importante. Io leggo quello che lei scrive, e le posso dire che la prossima volta lei entrerà dalla porta principale". E io, che a tutto pensavo tranne che a quale porta avessi varcato, rimasi colpito da questa sua convinzione così profonda, e dall'intensità del suo auspicio. Cominciavo a misurare quanto diffuso e profondo fosse il consenso verso le cosiddette "mie" tesi, cioè verso il pensiero scientifico, in chi vedeva ogni giorno di più sfilacciarsi la trama del pensiero magico piddino. Cominciavo ad avvertire il peso della responsabilità che mi ero assunto aprendo gli occhi a tante persone, fornendo loro un quadro interpretativo coerente della realtà, il disegno che univa i puntini (quel momento epifanico che tanti di voi mi hanno descritto, qui, o privatamente), ma certo mai avrei pensato, all'epoca, che questa responsabilità potesse, e anzi, inevitabilmente, dovesse, concretizzarsi in un mandato parlamentare.

Lui lo aveva capito prima e meglio di me.

Capire le cose, naturalmente, non significa sempre prevederle con assoluta precisione. In effetti, prima di passare dalla porta principale entrai alla Camera da ingressi secondari in almeno due altre occasioni: questa


e questa:


Oggi, per coordinarmi con un collega deputato sul da farsi a fronte di una delle ultime infinite infamie piddine, mi sono offerto di andare a trovarlo alla Camera, tornando dal convegno del CUB (dove pensavo di trovare Fassina, e invece ho trovato il mio marxista dell'Illinois preferito) e... sono entrato dall'ingresso principale: in effetti, io, per me, sarei sempre Alberto, ma per qualcuno ora sono il senatore Bagnai.

Avrei voluto cercare il commesso, ma la Camera è vasta, caotica, e piena di gente che conosco: non mi sono addentrato (un'idea di dove trovarlo ce l'avrei).

Gli avrei detto (e certamente prima o poi gli dirò): "Aveva ragione lei".

Non mi capita spesso di doverlo dire: il che rende questo compito tanto più piacevole quanto più raro.

Così, ai nostri nemici, scotterà dover dire, non una, ma tante volte, che avevamo ragione noi.

Amen.



(...per chi si fosse distratto: i tedeschi hanno ammesso che l'euro non è irreversibile, e il simpatico vicepresidente portoghese nostro beniamino, per aver confermato nel 2013 l'assunto di partenza di questo blog, ha confermato oggi in audizione anche la reversibilità dell'euro, sostenendo anche che la Bce è in grado di farvi fronte - emettendo moneta, se necessario! Le cose vanno avanti, e vanno avanti perché voi ci state rafforzando. Continuate così...)

venerdì 6 aprile 2018

...e Amatrice

Claudio Gandolfo ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "L'Aquila": 

Appena arrivato:
Bruxelles, 6 aprile 2018
La Commissione europea ha stabilito che il regime di aiuto italiano pari a 43,9 milioni di € volto a sostenere gli investimenti nelle regioni colpite dai terremoti del 2016 e del 2017 è in linea con le norme dell'Unione in materia di aiuti di Stato. L'aiuto contribuirà alla ripresa economica dell'Italia centrale senza falsare indebitamente la concorrenza nel mercato unico.
Margrethe Vestager, Commissaria responsabile per la Concorrenza, ha dichiarato: “La popolazione e l'economia dell'Italia centrale si stanno ancora riprendendo dalle drammatiche conseguenze dei terremoti verificatisi negli ultimi anni. Le autorità italiane intendono sostenere gli sforzi in atto con una misura che contribuisca alla ripresa economica di queste zone. Riteniamo che la misura sia idonea a sostenere le imprese colpite e le persone che vivono in queste regioni.”
Nel 2016 e nel 2017 nell'Italia centrale si sono verificati quattro forti terremoti che hanno colpito approssimativamente 600 000 persone in un'area di circa 8 000 km². Attualmente la regione risente ancora di un'attività sismica anormale che determina la progressiva desertificazione delle zone colpite. È improbabile che il problema possa essere affrontato solo mediante misure di compensazione.
Il regime di aiuto italiano approvato oggi mira a integrare queste misure, per attenuare i danni economici e sociali subiti nelle zone colpite sotto forma di i) forte calo del PIL, ii) pesante perdita di posti di lavoro, iii) riduzione dell'attività economica di oltre il 50% e iv) diminuzione significativa del fatturato delle imprese rispetto ai livelli precedenti al terremoto. Sono interessati 140 comuni in Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo.
L'aiuto assume la forma di un credito d'imposta per tutte le imprese che effettuano investimenti iniziali nella zona. Il sostegno alle grandi imprese si limiterà a un aiuto per la costituzione di una nuova impresa, la diversificazione dell'attività di un'impresa o l'acquisizione degli attivi di un'impresa che ha chiuso. Il regime, che ha una dotazione complessiva di 43,9 milioni di €, coprirà il periodo 2018-2020.
In considerazione della sua durata, dotazione e portata geografica limitata, la Commissione ha concluso che il regime di aiuto contribuirà in misura proporzionata alla promozione dello sviluppo economico e della ripresa nell'Italia centrale. Sulla base di tali elementi, la Commissione ha concluso che il regime è in linea con le norme dell'UE in materia di aiuti di Stato.
Giudicate voi. 


Postato da Claudio Gandolfo in Goofynomics alle 6 aprile 2018 14:52



...bene: ora voglio vedere come si mette per gli aquilani, perché se dopo aver fatto rammaricare la Commissione per quattro giorni di ritardo (rispetto a una comunicazione che nessuno aveva mai fatto), dopo non essere rientrati nel Temporary Framework (estensione del regime di esenzione dai 200.000 ai 500.000 euro) per un giorno, ecc. ecc., saltasse anche fuori che il loro terremoto è di serie B rispetto a quello di Amatrice, credo proprio che la popolarità della signora Vestager andrebbe (meritatamente) alle stelle!

La sintesi politica è chiara: questa maggiore ragionevolezza della cosiddetta Europa è conseguenza diretta della vittoria dei partiti "populisti" (cioè nostra, visto che gli altri sono allineatissimi, come qui previsto). Hanno paura, e giocano al poliziotto buono. Il problema dell'Europa è che quando sorride, fatalmente, scopre i denti. Vuole tanto sembrare gentile con gli ultimi terremotati, ma così facendo, fatalmente, trasforma in una summa iniuria quello che sta accadendo ai penultimi. Del resto, l'UE non è la sola istituzione più attenta agli ultimi che ai penultimi (ma qui mi fermo per non allargare troppo il discorso).

Sto seguendo la cosa da vicino e vi ringrazio come sempre per i vostri contributi.

mercoledì 4 aprile 2018

L'Aquila

La lettura della Decisione della Commissione del 14.8.2015 C(2015) 5549 final, scritta in un italiano quasi sempre corretto (Abbruzzo...), offre interessanti prospettive sui rapporti fra Italia e Unione Europea e sul mondo che il Partito Democratico ha voluto, sempre voluto, fortissimamente voluto per noi, da quando si è trovato orfano di un altro totalitarismo.

Intanto, oggi i nostri cari amici piddini si chiamano fuori dalla mostruosità burocratica di questa decisione cantando la loro canzoncina preferita, un evergreen: #hastatoabberluscone! I problemi degli aquilani, secondo i piddini, deriverebbero non dalle assurdità del TFUE (e soprattutto della sua applicazione, come vi mostrerò fra breve), ma dal fatto che il negligente Berlusconi avrebbe omesso di notificare alla Commissione misure che potevano costituire aiuti di Stato. Di questa omessa notifica ai sensi dell'articolo 108, paragrafo 3, del TFUE la Commissione si rammarica al punto (116) della Decisione, e noi ce ne condoliamo seco lei, salvo constatare che è la stessa Commissione a specificare che nel caso dell'Abruzzo l'obbligo di notifica incombeva per la Legge di stabilità 2012 (L. 12 novembre 2011, n. 183), perché questa riveste carattere di aiuto di Stato (punto (109) della Decisione). Il motivo è che è stata questa legge a stabilire l'abbattimento degli importi da versare al 40% e la loro rateizzazione in 120 rate mensili (punto (36) della Decisione).

Piccolo dettaglio, quattro giorni dopo la promulgazione della legge, Berlusconi venne deposto in un modo che già non mi piaceva quando ero di sinistra (ex multis), e che ovviamente mi piace anche di meno ora che sono di destra! Credo che in quei giorni, durante quel golpe (per dirla com'è), tutti in Italia avessimo altro cui pensare che smaltire burocrazia europea (con tutto il rispetto per la burocrazia, necessaria in qualsiasi organizzazione, e per l'Europa, che non è l'Unione Europea).

Va anche detto che l'omessa notifica di Berlusconi ha avuto un'unica conseguenza: il rammarico della Commissione. Voglio dire che se anche Berlusconi avesse notificato nel 2012 (o anche nel 2009) le misure, quale scenario si sarebbe aperto? Quello previsto dall'art. 108 paragrafo 3 del TFUE, ovvero l'avvio di una procedura che avrebbe comunque paralizzato l'azione del Governo italiano, nell'attesa che a Bruxelles decidessero il da farsi. Ritenete ammissibile un simile modus operandi per un paese a rischio sismico e idrogeologico come il nostro? Io no (ex multis).

Mi affretto ad aggiungere una cosa. Ho mal ricambiato la gratitudine che devo al vincitore di quella stagione politica, il senatore Monti, e che gli ho espresso qui, affermando una cosa inesatta a suo riguardo. Per colpa mia (ma, come vedrete, e come al solito, la colpa è dell'UE) La Verità (il giornale) non ha detto la verità (quella vera). Non è infatti vero che il governo Monti, nella sua notifica a sanatoria, inviata per email il 2 luglio 2012, non abbia citato fra le possibile deroghe applicabili nel caso italiano quella specificata dall'art. 107, paragrafo 3, lettera c (aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi [nota: fra paesi membri, come chiaramente deducibile dal paragrafo 1 dello stesso articolo] in misura contraria al comune interesse). Monti, correttamente, lo fece. Il motivo per il quale io non gliel'ho riconosciuto è stato una lettura affrettata della Decisione, dato che questa al punto (118), afferma che "nelle sue osservazioni lo Stato membro non ha sostenuto che l’aiuto potesse rientrare nelle deroghe di cui agli art. 107, par. 3, lettere a) o c) del TFUE, né fornito informazioni di qualsiasi tipo che potessero consentire alla Commissione di valutare la compatibilità dei regimi in esame alla luce di tali deroghe". Ora, questo si riferisce specificamente alle osservazioni presentate dal governo Renzi (sembra di capire, in data 4 agosto 2014). Monti aveva impostato correttamente la linea difensiva, proponendo anche "informazioni che potessero consentire alla Commissione di valutare la compatibilità dei regimi ecc.". Per qualche strano motivo, invece, Renzi (o chi per Renzi: e chi sia stato non è dato sapere, al momento) ha invece scelto la strada dell'art. 107, paragrafo 2, lettera b ("aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali"). Una strada che sembrava più naturale, ma che l'esperienza (madre di ogni scienza) dimostra essere impervia per motivi sì assurdi (altrimenti non staremmo parlando di Unione Europea), ma verosimilmente noti a chi di "Europa" si occupa, o comunque impugnabili.

Si palesò una volta di più, in questa circostanza, l'atteggiamento del governo Renzi, affetto da quello che qui abbiamo chiamato il "calendismo", dal nome del suo più autorevole interprete: la filosofia politica della subalternità totale, propria di una élite che disprezza il proprio popolo, si vergogna di esso, e quindi non ne difende la dignità nelle sedi internazionali, mettendo se stessa in una posizione negoziale progressivamente più svantaggiata. A norma dell'art. 263 TFUE Renzi aveva 60 giorni per impugnare la Decisione, ma, naturalmente, non lo fece, probabilmente perché riteneva che farlo non fosse nell'interesse dell'Europa:


Si sarebbe potuto impugnare la decisione? Direi di sì (a parte l'ovvio motivo che si sarebbe dovuto comunque farlo). Molte cose non tornano in questa vicenda che, come vedrete, sia per la sua essenza, che per il modo in cui è stata gestita, ricorda da vicino il famigerato bail in (ex multis).

Intanto, il motivo per cui la Commissione avrebbe comunque ritenuto che quello concesso alle imprese del cratere sismico fosse aiuto di Stato, e come tale soggetto a recupero da parte dello Stato membro, è interessante.

La Decisione argomenta in più punti (ad esempio al punto (59)) che la deroga per "calamità naturale" può essere accordata solo se si dimostra che il danno è "conseguenza diretta" della calamità e che non vi è "sovracompensazione". Questa disposizione, nel Trattato, non c'è. Par di capire che essa sia in qualche regolamento, o abbia una fonte giurisprudenziale (qui ci vorrebbe Quarantotto). Le sue conseguenze però sono piuttosto evidenti: il danno viene circoscritto a quello materiale subito da beni fisici di proprietà dell'impresa, escludendo qualsiasi altro tipo di danno patrimoniale che una calamità come quella dell'Aquila necessariamente comporta. Banalmente, la chiusura per motivi di sicurezza di un intero centro storico fra i più belli del paese comporta (per definizione) la morte del turismo, con il danno patrimoniale che potete facilmente immaginare per le imprese che da questo traggono i propri redditi; lo spopolamento di intere comunità comporta un abbattimento del fatturato di tutte le imprese che vi operano; e via dicendo. Di questo tipo di danni, per esplicita ammissione della Commissione messa nero su bianco nella Decisione, alla cosiddetta Europa non frega un accidenti di nulla (lo dicono loro), perché sono danni "indiretti"!

Siamo d'accordo, vero, che questo approccio è un po' problematico?

Anche perché, d'altra parte, la Commissione, che chiede con tanta acrimonia (diciamolo: con aperta ostilità verso i cittadini di uno stato fondatore) di provare il nesso causale fra calamità e danno meramente materiale (tutti gli altri danni, spesso ben maggiori nel quantum, essendo per definizione conseguenza indiretta), è poi singolarmente generosa con se stessa, dispensandosi dall'obbligo di provare una cosa fondamentale: che le imprese beneficiarie fossero significamente attive negli scambi fra Stati membri. Non è cosa banale. L'art. 107 infatti tutela la concorrenza nel mercato interno, che significa interno all'Unione, cioè... estero per ciascuno stato membro. Ma la decisione, al punto (111), recita: "le misure riguardano imprese presumibilmente attive negli scambi tra Stati membri", motivo per il quale sarebbero in grado di incidere su detti scambi. Insomma, portando l'argomento ai suoi estermi (ma non troppo): la Commissione presume che aiutando il panettiere di Capestrano, la Repubblica Italiana abbia alterato la concorrenza fra una boulangerie di Auxerre e una Bäckerei di Rotterweil...

Come vedete, siamo punto e daccapo con la situazione del bail in, che il PD solerte applicò in anticipo, perché la signora Vestager (tanto nomini...) presumibilmente riteneva che aiutando Banca Etruria (con soldi privati, peraltro) si alterasse la concorrenza fra una Sparkasse della Turingia e una Banque rurale della Beauce!

Ecco, ditemi un po' voi: non è fantastica questa Europa (cioè l'Unione Europea)? Non è meraviglioso questo mondo del quale il PD ha voluto, sempre voluto, fortissimamente voluto fare gli interessi a discapito degli interessi nostri, e, in particolare, dei più deboli di noi, di quelli che vivono nei territori più fragili, ma anche più meritevoli di tutela?

Ora, c'è una cosa che a Bruxelles non sanno, e che forse qualcuno dovrebbe dirgli: noi abbiamo una Costituzione. Sì, proprio una di quelle cose per le quali l'art. 4 del TUE, cioè del Trattato fondatore, dice, a chiacchiere, di avere tanto rispetto: "L'Unione rispetta l'uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale...". Questa Costituzione forse è un po' lunga (meno dei Trattati, coi quali notoriamente confligge, come è stato più volte ribadito), ma all'art. 2 ci può arrivare anche un burocrate europeo: è pagato abbastanza per farlo! In quell'articolo è scritto che la Repubblica richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Per Berlusconi, o per chi si fosse trovato (o si era trovato, in sei casi analoghi partitamente esaminati dalla Decisione) al suo posto, prendere misure volte a contrastare l'emergenza sociale causata dal sisma, una emergenza che coinvolgeva intere comunità, territorialmente individuate, era un dovere inderogabile. Non si tratta di vedere se è crollato un capannone o se si è rotto un vetro. Il terremoto è una cosa un po' diversa, come non sa chi non lo sperimenta (per sua fortuna). Il terremoto, soprattutto quando lascia centinaia di morti, stravolge profondamente un territorio nella sua integrità e nella sua identità. Quindi, ancora una volta, ci sarebbe da chiedersi di cosa parla esattamente l'art. 4 del TUE quando dice che l'Unione "rispetta le funzioni essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia dell'integrità territoriale". Se le rispetta così, ci chiediamo cosa accadrebbe qualora non le rispettasse (ma forse basta andare indietro con la memoria di pochi decenni per averne un'immagine plastica, e non finì comunque bene...).

Ci sono, naturalmente, infiniti altri dettagli e technicalities di cui si potrebbe parlare, dal regime de minimis in giù. Ma quello che mi interessava qui sottolineare era quanto devastante sia per il nostro paese la sinergia fra un mostro burocratico che nega in pratica i principi che afferma in teoria, e una cultura politica subalterna, quella del PD, erede di chi definì l'Italia un popolo di mandolinisti, che è in re ipsa incapace di affermare nelle sedi cosiddette europee alcuni principi di civiltà, la cui affermazione sarebbe interesse non degli aquilani, o degli italiani, ma degli uomini tutti che vivono in questo lembo suicida di terra emersa (da Capo Nord - che è un extracomunitario - a Capo Passero).

E invece gnente. Duri come il diaspro, i piddini continuano a non capire che non potranno essere parte della soluzione, finché non avranno capito dov'è il problema. Purtroppo, è in casa loro. La sconfitta non sembra averli aiutati a riflettere. Tanto peggio: ce ne vorrà una peggiore. Che venga fra due mesi o due anni non importa: verrà, perché questo è il loro destino.

Noi, intanto, ci attrezziamo a resistere.

(...se sbaglio ecc....)

lunedì 2 aprile 2018

La dinamica del debito pubblico (esercitazione)

In un post precedente abbiamo ricavato la formula che descrive l'evoluzione del rapporto debito/Pil in termini di alcuni fondamentali macroeconomici: l'avanzo primario, la crescita reale, il tasso di interesse reale. Riporto la formula per vostra comodità:

Qui non ci interessa tanto capire come vi si arrivi: questo ve l'ho spiegato prima. Ci interessa capire se e come funziona.

Intanto, a sinistra dell'uguaglianza (approssimata) abbiamo la variazione del rapporto debito/Pil, il che significa che se la somma (algebrica) a destra dell'uguaglianza restituisce un valore positivo, questo rapporto crescerà, altrimenti calerà.

Ceteris paribus, la variazione del rapporto debito/Pil (cioè la somma a destra) sarà positiva, e quindi il rapporto debito/Pil crescerà:

1) quanto più alto è il tasso di interesse reale r;
2) quanto più bassa è la crescita reale n;
3) quanto minore è l'avanzo primario a.

Sono tutte cose piuttosto intuitive: ad esempio, se il tasso di interesse è relativamente alto, devo pagare molti interessi, e quindi, al limite, entrare in quella spiacevole situazione nella quale devo indebitarmi per pagare gli interessi sul debito. Naturalmente, se l'avanzo primario è piccolo, o addirittura negativo (cioè è un disavanzo), il debito tenderà a crescere. E via dicendo.

Il discorso diventa meno ovvio se si rimuove il ceteris paribus, cioè se si considera che le tre variabili considerate (r, n e a) sono interdipendenti. Ad esempio, un austeriano D.O.C.G. (Denominazione di Origine della Commissione Germanica) vi dirà che è essenziale avere un grande a (grande avanzo primario), ma tenderà a dimenticare che questo, di solito, porta a un n piccolo o negativo (come nel caso di Monti), e, se provoca deflazione, anche un r relativamente elevato (perché sottrai al tasso di interesse nominale un tasso di inflazione negativo, e quindi... aggiungi anziché togliere). D'altra parte, i libri di macroeconomia standard vi dicono che se invece è negativo a (cioè se si va in disavanzo), probabilmente crescerà r (effetto spiazzamento: la domanda di capitali da parte dello Stato fa innalzare il costo del denaro), e quindi diminuirà anche n: catastrofe totale, in cui le tre variabili si muovono tutte e tre in senso avverso. Meno male che la macroeconomia standard non è molto affidabile (per questo consultate il libro di Sergio)! Se lo fosse, dopo tanta austerità e un crollo dei tassi di interesse, non ci troveremmo in una "unfavourable fiscal position" (per usare le delicate parole della Commissione).

Tuttavia, di questo parleremo diffusamente dopo, quando passeremo dalla tecnica alla politica. Ora mi interessa ragionare di tecnica, e vedere con voi come funziona esattamente la formula. Prendo come punto di partenza quello che il Fmi prevede per i nostri fratelli spagnoli da qui al 2022. Questa previsione è riportata nell'edizione dell'ottobre 2017 del World Economic Outlook, che trovate qui.

La traiettoria prevista del rapporto debito/Pil per la Spagna (la trovate alla riga 7108 del foglio Excel) è questa:


Da 98.7 a fine 2017, il debito dovrebbe scendere fino a 92.4 alla fine del 2022: una diminuzione di 6.3 punti percentuali di Pil (auguri). La domanda è: nello scenario del Fmi, questa previsione è coerente con la formula (4)? La risposta è sì, ma prima occorre una piccola premessa. Se cercate nel foglio Excel il tasso di interesse reale r, non lo trovate. Trovate però tutti gli elementi per calcolarlo, che sono:

1) il deficit totale in miliardi di euro (riga 7099);
2) il deficit primario in miliardi di euro (riga 7103);
3) il deflatore del Pil (riga 7072);
4) il debito in miliardi di euro (riga 7107).

La cosa funziona così: lo scarto fra deficit totale e deficit primario vi dà la spesa per interessi. Ad esempio, nel 2018 si prevede che il deficit totale sarà 29.6 miliardi e il deficit primario sarà 0.3 miliardi, per cui la spesa per interessi sarà di 29.3 miliardi.

Dividendo la spesa per interessi per il debito dell'anno prima ottenete il tasso di interesse medio nominale sul debito: visto che il debito a fine 2017 è 1143.8, questo tasso è pari a 29.3/1143.8 = 0.02561 = 2.6% (nota: uso la regola dell'arrotondamento all'intero più vicino).

La variazione del deflatore del Pil fornisce il tasso di inflazione. Dato che il deflatore del Pil si prevede passi da 101.96 a 103.58, il tasso di inflazione sarà (103.58-101.96)/101.96 = 0.016 (1.6%).

Di conseguenza, il tasso di interesse reale sarà 2.6% - 1.6% = 1.0%.

Visto? Nelle fonti c'è tutto, basta sapere come trovarlo! E ora, avendo fatto per voi questi bei calcoletti, vi fornisco la prova (superflua) che la matematica non è un'opinione, dandovi tutti i dati necessari per verificare la (4):


La storia inizia quest'anno, nel 2018. La variazione prevista del debito sarà pari a -1.5 (da 98.7 a 97.2) e sarà interamente dovuta all'effetto "crescita" (il primo addendo della formula), perché l'effetto "avanzo" sarà nullo, essendo previsto, appunto, un a = 0. Quello che aiuterà il debito spagnolo a scendere sarà l'avere una crescita reale pari a 2.5%, superiore al tasso di interesse reale pari all'1%, per cui il termine (r-n)d(-1) restituisce, appunto: (0.01-0.025)x0.987 = -0.01485, ovvero, arrotondando, -1.5 punti percentuali. I conti tornano.

Nel 2019 l'effetto crescita diminuisce, perché la crescita reale scenderà dal 2.5% al 2.0% mentre il tasso di interesse resterà quasi invariato (passando dall'1% allo 0.9%), ma la Spagna andrà in avanzo primario e quindi avremo -a = -0.3. L'effetto complessivo (calcolare per credere) sarà un'ulteriore diminuzione del rapporto debito/Pil di 1.4 punti percentuali.

Tirando le somme (cioè sommando i due effetti dal 2018 al 2022), vediamo che per il Fmi la diminuzione complessiva del rapporto debito/Pil spagnolo, pari, lo ricordo, a 6.3 punti di Pil nel prossimo quinquennio, sarà dovuta per 4.5 punti (il 71%) all'effetto crescita (cioè al primo addendo della (4)) e per i restanti 1.8 (il 29%) al conseguimento di un avanzo primario.

Che avvenire roseo si prospetta ai nostri cugini! E a noi? Bè, di noi parliamo un'altra volta. Intanto, rifatevi i conti, così se ho fatto qualche errore lo correggiamo prima di andare avanti...

Addendum ad personam (per Carlo Guadagni):


 (...guarda un po' se così i conti tornano...)

I nemici della democrazia

(...scusate, l'esercitazione arriva subito, tenete la calcolatrice a portata di mano, ma prima dobbiamo occuparci di una cosa di gran lunga più importante. Qualcuno ha dichiarato guerra alla democrazia. Chi sia lo sappiamo, e questo è un luogo di resistenza. Riusciremo a sconfiggere i nemici della democrazia?...)


Da uno de passaggio, di ritorno dall'America Latina (sempre perché le piccole imprese non sono produttive e non esportano ecc.), ricevo questa lettera che condivido con voi. So che rinnovellerò il dolore di uno di voi, di quelli a cui tengo di più (perché questo essendo un blog europeo, qui ci sono rigorosamente figli e figliastri), ma forse soddisferò anche, in minima parte, la sua sete di giustizia.

Caro Alberto, 
                     so che non è un tema Pasquale (o forse sì) ma, mentre le bimbe guardano un cartone animato Disney (uno dei bei tempi) il sottoscritto, che sta terminando la nuova edizione del libro di Marcello Foa, approfondisce il tema: "Ong e rivoluzioni colorate usate per la prima volta contro Milosevic". 
Mi imbatto in un documentario olandese, di cui avevo già visionato alcuni brani tempo fa. Si tratta della ricostruzione del processo a Milosevic. È tutto molto interessante, ma la parte che precede l'uso dei suddetti mezzi, di cui parla Foa, mi sembra particolarmente significativa.
Ci si riferisce ai primi anni '90, quando fu diffusa la "notizia" che i serbi internavano i bosniaci in campi di concentramento ed effettuavano "pulizia etnica" (questa parte nel libro di Marcello è solo accennata, ma relativamente al Kosovo). 
Sono sufficienti 7 minuti di visione, da questo punto: https://youtu.be/TTHCIdeeKHc?t=1042 per rendersi conto chiaramente di come i media abbiano agito e riscontrare che oggi, sul tema euro/UE, agiscano come all'epoca su quello yugoslavo. 
Un abbraccio


(...che dire? Sono fatti che abbiamo riscontrato decine di volte. Si apra la discussione, prima che veniate travolti da una slavina di numeri...)

(...in anteprima per voi: il libro di Marcello verrà presentato da me e da Vladimiro a Roma il 21 aprile, alle 17, a S. Salvatore in Lauro...)

Maastricht e l'aritmetica del debito pubblico: parte seconda

(...s'era detto che avremmo continuato, e continuiamo. Questo blog è anche un percorso didattico, e dobbiamo fare una tappa importante...)


Vorrei riprendere, visto che siamo in vacanza, e di tempo ne avete, un argomento che abbiamo affrontato cinque anni or sono, quello dell'aritmetica del debito pubblico, ovvero delle relazioni che legano la crescita del debito (e del suo rapporto al Pil), ad altri fondamentali macroeconomici quali il deficit (e il suo rapporto al Pil), la crescita, il tasso d'interesse, ecc. Su questo argomento avete sentito, sentite, e sentirete sproloquiare una caterva di personaggi in cerca di editore (o di incarico), per cui è bene che vi attrezziate con un minimo di strumenti tecnici, allo scopo di orientarvi con scioltezza in un terreno nel quale gli agguati ideologici sono all'ordine del giorno.

Premessa

Prima di entrare in argomento, è indispensabile fare una premessa. In questo blog abbiamo sempre sostenuto, perché lo sosteneva la Commissione Europea, che il debito pubblico italiano fosse perfettamente sostenibile sia nel breve che nel lungo periodo. Già che ci siamo, aggiorno le informazioni: il post sull'eugenetica pensionistica è del 2016, e da allora abbiamo avuto altre due edizioni del Fiscal sustainability report, che nel frattempo si chiama Debt sustainability monitor, quella del 2016 e quella del 2017. Non è cambiato solo il titolo, ma (in parte) anche le conclusioni: ora l'indicatore S2 di sostenibilità a lungo termine, quello che tiene conto delle passività implicite nell'evoluzione del sistema pensionistico (cioè, in italiano, del fatto che lo Stato dovrà trovare i soldi per le pensioni), evidenzia una lieve criticità:



L'Italia ora è nella regione "insostenibile", e se confrontate questi grafici con quelli degli anni precedenti (l'ultimo disponibile era quello del 2015, elaborato sui dati fino al 2014), noterete che ci è entrata spostandosi orizzontalmente a destra, anziché verticalmente verso l'alto.

Uno spostamento verticale verso l'alto avrebbe significato un peggioramento delle previsioni a lungo termine, quelle riferite alla spesa pensionistica, che invece sappiamo essere favorevoli per il nostro paese. Lo conferma il Rapporto sullo stato sociale 2017, che ribadisce come il rapporto fra spesa pensionistica e Pil sia previsto in discesa:


il che rende vacue (o meglio: sospette) le reiterate invocazioni di nuove riforme pensionistiche (e anche perfettamente giustificata la nostra proposta di abrogare l'ultima: ma di questo vi parlerò in altra sede).

Lo spostamento orizzontale verso destra significa che ora il debito italiano è insostenibile perché si è deteriorata la situazione iniziale (unfavourable initial fiscal position), cioè perché il rapporto debito/Pil oggi è alto. Come si sia innalzato lo sapete, perché ne abbiamo parlato nel fact checking sull'operato del mio nuovo collega, Monti: quello che ha trovato il rapporto debito/Pil al 116% e ce lo ha restituito al 131%.

Quindi ora possiamo dire anche noi, forti dell'auctoritas della Commissione, quello che quattro petulanti cialtroni ideologizzati (o prezzolati) ci hanno detto per anni, quando non era vero, vale a dire che in effetti cominciamo ad avere un (lieve) problema di sostenibilità del debito. Naturalmente i quattro suddetti cialtroni ora esulteranno: sarà il loro I-told-you-so moment, quello che noi chiamiamo un #VLAD (ve lo avevo detto). Ma qui #VLAD posso dirlo solo io, non i cialtroni della stampa o della politica: se avete seguito il ragionamento, infatti, capirete che i grafici del Debt sustainability monitor sono la conferma definitiva del fatto genetico di questo blog, ovvero della denuncia che i salvataggi di Monti non solo non ci hanno salvato, ma, facendo aumentare il rapporto debito/Pil, ci hanno definitivamente affossato, rendendo fragile una situazione di finanza pubblica che non lo era (e facendolo, possiamo dirlo, oggettivamente non nell'interesse del paese, come è evidente ex post, ma di chi ha ricevuto dal paese miliardi in quota "fondo salvastati").

L'austerità di Monti è stata l'amputazione di una gamba se non sana, almeno non malata (la finanza pubblica, che grazie all'austerità è diventata meno sostenibile perché è diminuito il reddito degli italiani, unica vera garanzia di sostenibilità), mentre si trascurava (scientemente? Ideologicamente?) la gamba malata, ovvero quelle banche delle quali ora tutti vedono le criticità (mentre nel 2011 le vedevamo veramente in pochi).

Questo tanto per ricordare ai prezzolati o ai turisti che si trovassero casualmente a curiosare da queste parti che io, invece, in Senato non mi ci trovo per caso, ma perché ho fatto il possibile per mettere in guardia i miei concittadini da alcune catastrofi annunciate (e solo un partito ha saputo raccogliere il mio grido di allarme). Poi starà a loro decidere se continuare il percorso con noi, e magari parlarne nei loro fogli che nessuno più compra (perché non hanno avuto, né potevano avere, la lucidità di questo blog). Le cose, in ogni caso, continueranno ad andare come devono: i processi storici ed economici sono oggettivi, l'individuo conta, ma fino a un certo punto, le intenzioni contano zero di fronte ai risultati, e i conti si fanno alla fine...

La sintesi di questa premessa è che ora il problema c'è, che è stato creato da chi pretendeva di risolverlo quando non c'era, e che per evitare di aggravarlo dobbiamo essere estremamente consapevoli di cosa guidi la dinamica del rapporto debito/Pil. Solo questa consapevolezza ci permetterà di non trovarci, nel 2018, o nel 2019, con una "initial fiscal position" ancora più "unfavourable" di quella in cui ci ha messo il salvatore della Patria (altrui). Va anche detto che la dimensione tecnica, quella che qui vi esorto ad approfondire, non è poi così essenziale: per rifiutare certi argomenti basterebbe quella comunicativa (le favolette morali sullo Stato come una famiglia), e basterebbe ricordarsi di chi abbia propalato ricette letali per il paese (i soliti noti). Lo so, non è politicamente corretto, ma me ne infischio: purtroppo certi argomenti valgono quanto le persone che li propalano, e se una persona viene da un'istituzione o da una società che ha fallito o sta fallendo, o ha millantato titoli che non aveva, o risponde chiaramente a interessi particolari dai quali dipende la sua sussistenza, si può tranquillamente girar pagina o cambiare canale. Però se voi siete qui è perché volete sapere quello che non sapete (a differenza dei piddini, che non vogliono sapere quello che sanno di sapere). Quindi, passiamo alla "tecnica".

Riassunto della puntata precedente

Vi ricordo che questa è la seconda puntata di un discorso iniziato qui, che sarebbe meglio vi riguardaste prima di andare avanti. Qui lo riassumo, semplicemente per mettere in evidenza in cosa oggi arricchiamo il nostro bagaglio tecnico.

Molto rapidamente: il deficit o indebitamento o fabbisogno F è definito come variazione del debito D:
per cui, ad esempio, il deficit del 2017 è la differenza fra il debito a fine 2017 e il debito a fine 2016 (cioè inizio 2017):
Dividendo per il valore del Pil a prezzi correnti, Y, questa relazione, si arriva a dimostrare che:
(è la formula (4) del post citato), dove le lettere minuscole indicano i rapporti al Pil di debito (d) e deficit (f). Il rapporto debito/Pil a fine anno dipende dal fabbisogno dell'anno trascorso, più il rapporto debito/Pil dell'anno precedente diviso per uno più il tasso di crescita del Pil nominale (gamma). Al di là della magia matematica di questa formula, il senso è chiaro: un maggior deficit f porta a un maggior debito d (e ci mancherebbe!), ma una maggior crescita "diluisce" il rapporto, frenandone la crescita.

Con una ulteriore, semplice, manipolazione matematica si può dire la stessa cosa in modo forse più chiaro. Possiamo esprimere la variazione del rapporto debito/Pil d (ottenuta sottraendo a entrambi i membri il valore di d al tempo precedente), scomponendola in una parte che dipende dalla crescita, e una che dipende dal fabbisogno:
(è la formula (6) del post citato). Vi faccio notare che se la crescita è bassa, dividere per uno più gamma equivale a dividere per uno, e quindi gamma è sostanzialmente identico a gamma diviso per uno più gamma:

(va notato che negli ultimi quattro anni la nostra crescita nominale media è stata attorno all'1.5%, cioè è 0.015, mentre l'approssimazione comincia a non funzionare per valori attorno al 2.5%), per cui la formula può essere ulteriormente snellita, utilizzando il segno di uguaglianza approssimata:

Qui si vede che il rapporto debito/Pil cresce se il rapporto fabbisogno/Pil (f) è positivo e non è compensato dal prodotto fra la crescita nominale (gamma) e il rapporto debito/Pil del periodo precedente. Si vede anche che per azzerare la crescita del rapporto debito/Pil occorre e basta un fabbisogno pari al prodotto fra la crescita nominale e il valore precedente del debito:
Abbiamo utilizzato questa formula in questo post per studiare quanto ci sia costato Monti, con il suo insano (o scaltro) proposito di abbattere il rapporto debito/Pil, quando sarebbe stato molto meglio darsi come obiettivo la sua stabilizzazione (proposta all'epoca da Riccardo Realfonzo). Per non ripetere oggi gli errori di ieri, bastano le quattro operazioni. Dato che nel 2017 si stima che il rapporto debito/Pil sia stato del 131.6% (1.316) e che la nota di aggiornamento al DEF prevede per il 2018 una crescita nominale del 3% (0.03), ne consegue che il rapporto deficit/Pil che stabilizzerebbe il debito nel 2018 sarebbe pari a 0.03x1.316 = 0.039 (il 3.9%). Da notare che nel nostro quadro programmatico prevediamo invece un rapporto deficit/Pil del 2.8% (superiore all'1.6% proposto dal governo, o al suicida 1.2% proposto da +Europa, col quale si sarebbe ripetuto l'errore di Monti!), che quindi porta a una diminuzione (controllata) del rapporto debito/Pil (essendo inferiore al valore del deficit che questo rapporto lo stabilizzerebbe).

Il problema è che qui stiamo considerando solo il fabbisogno complessivo. Il passo avanti che vorrei fare oggi con voi è scorporare il fabbisogno complessivo in fabbisogno primario (al netto della spesa per interessi) e spesa per interessi. Il vantaggio di questa piccola complicazione è che ci permetterà di analizzare l'impatto sulla sostenibilità del debito pubblico delle variazioni del tasso di interesse (sappiamo che dovrà crescere, no?), e inoltre ci permetterà di ragionare in termini di avanzo primario, una categoria che nel dibattito viene utilizzata spesso.

Scomponiamo il deficit

A questo scopo, esprimiamo il fabbisogno complessivo scomponendolo nel modo seguente:
ovvero, la variazione del debito è pari alla spesa per interessi (a sua volta data dal prodotto del tasso di interesse per lo stock di debito esistente all'inizio del periodo), cui viene sottratto l'avanzo primario. Mettiamo un segno meno proprio perché stiamo ragionando in termini di avanzo (differenza fra entrate e uscite). Se ragionassimo in termini di disavanzo (differenza fra uscite e entrate) dovremmo mettere un segno positivo. Lo facciamo perché mentre quando si ragiona in termini complessivi ci si sofferma sul deficit, quando si parla di saldi primari normalmente si considera l'avanzo. Non chiedetemi perché! L'importante, però, è capirsi. Ovviamente mentre un disavanzo aggiunge qualcosa al debito, un avanzo sottrae al debito: ed è per quello che lo vedete con il segno meno.

Ripetendo i passaggi che portano dalla (3) alla (4) del precedente post, dato che
dividendo per il Pil nominale Y otteniamo:
e sottraendo il rapporto debito/Pil al tempo precedente da entrambi i lati:
ricaviamo la variazione del rapporto debito/Pil in funzione del tasso di interesse i e dell'avanzo primario a (in rapporto al Pil):

La formula è molto simile alla (6) del post precedente. Lo si vede meglio se la scriviamo così:
dove ho scomposto il rapporto presente nella (3) nei suoi due termini (questo vostro figlio lo sa fare...), e ho poi raggruppato, evidenziandoli con una graffa, i termini che corrispondono alla scomposizione del fabbisogno complessivo f nei due elementi che ci interessano: la spesa per interessi, e l'avanzo primario cambiato di segno. Quindi stiamo dicendo la stessa cosa di prima, (il debito cresce se il deficit è positivo, ma cala se la crescita nominale è sufficientemente elevata da compensare l'effetto del deficit) ma in modo diverso, con più dettagli (in particolare, mettendo in evidenza il ruolo del tasso di interesse: evidentemente, quanto più questo è alto, tanto più il rapporto debito/Pil crescerà).

Ora, però, dobbiamo fare un ulteriore sforzo per avvicinarci alle categorie del dibattito, ma sarà uno sforzo abbastanza indolore (o tale cercherò di renderlo). Va infatti detto che normalmente quando si parla di crescita, ci si riferisce alla crescita reale, cioè al netto dell'inflazione. Possiamo chiamare questa crescita n. Allo stesso modo, possiamo definire il tasso di interesse reale r come quello al netto dell'inflazione. In altri termini, per semplicità, abbiamo:
(gli ingengngnieri, che sanno che sto linearizzando, mi perdoneranno. Per tutti gli altri queste parole non sono mai esistite... ma forse nemmeno le altre!).

Ora, torniamo al punto che se la crescita nominale è bassa, dividere per uno più gamma lascia le cose inalterate, e quindi, nella formula (3), avremo che:
Insomma: lo scarto fra tasso di interesse e tasso di crescita nominali (diviso per uno più il tasso di crescita nominale) è sostanzialmente uguale allo scarto fra tasso di interesse e tasso di crescita reali, il che, alla fine di tutta questa lunga storia, ci permette di esprimere la variazione del rapporto debito/Pil in questo modo:
Quest'ultima formula non è difficilissima da interpretare, ma spalanca un mondo e mette insieme tanti discorsi fatti qui nel corso degli anni.

Ad esempio: ricordate la repressione finanziaria? Sì, mi riferisco a quel paper di Reinhart e Sbrancia sul quale uno di voi aveva attirato la mia attenzione (chissà se è ancora qui?), e che avevo utilizzato poi in vari interventi (ad esempio nel 2013 al Parlamento Europeo). Quel lavoro (lo trovate qui) spiega molto bene come la discesa del debito dai picchi raggiunti dopo la seconda guerra mondiale sia stata realizzata soprattutto controllando il tasso di interesse, che nell'era della repressione finanziaria era stato, in termini reali, mediamente negativo:

Nei paesi avanzati, come vedete, la media era stata di -1.1, contro una media di 2.7 dopo la svolta all'inizio degli anni '80. La formula (4) vi spiega molto bene perché questo ha favorito la spettacolare discesa del debito che ricorderete, ma che vi ripropongo qui:

Il motivo, quando sai l'aritmetica del debito, è banale. Se il tasso di interesse reale è negativo, a meno di una recessione che rende negativa la crescita reale n, il primo termine della (4) sarà negativo, e questo favorirà la diminuzione del rapporto debito/Pil anche se c'è un disavanzo. Faccio un esempio numerico: con un rapporto debito/Pil al 130% (1.3), come il nostro (approssimativamente), un tasso di interesse reale del -1.1% (-0.011), come al tempo della repressione finanziaria, e una crescita reale dell'1.2% (come quella ipotizzata dalla nota di aggiornamento al DEF), avremmo:


per cui il rapporto debito/Pil diminuirebbe anche con un disavanzo primario (cioè con un -a positivo), purché inferiore al 2.9%.

Non c'è che dire: lasciare che il costo del debito (e quindi l'ammontare di reddito trasferito ai rentier) lo decida lo Stato (controllando e regolamentando i mercati finanziari nei modi che sapete), anziché "i mercati", cambia decisamente la prospettiva.

Ora, questo mondo non è più il nostro, e la cesura qui da noi è stata il "divorzio" fra Tesoro e Banca d'Italia (cioè la decisione della Banca d'Italia di non calmierare più il costo del finanziamento del debito pubblico intervenendo sul mercato, in modo da costringere lo Stato a fare avanzi primari - che ininterrottamente fa dal 1992, con la sola eccezione dei due anni di crisi, 2009 e 2010): questi avanzi sono, come ci siamo ampiamente detti ne Il tramonto dell'euro, un gigantesco trasferimento di risorse dalle forze produttive del paese (famiglie e piccole imprese) verso il sistema finanziario, che sentitamente ringrazia (e quando il sistema scricchiola manda i suoi proconsoli a sistemare le cose).

Tuttavia, l'analisi storica di Reinhart e Sbrancia chiarisce molto bene due cose, che sapete. La prima è che oggi siamo, in termini di debito pubblico, a un massimo storico (e non dipende solo dal nostro paese!). La seconda è che da simili punti di massimo si torna verso situazioni più sostenibili in tre modi: con l'iperinflazione, con la bancarotta, o con la regolamentazione dei mercati finanziari (per favorire una crescita moderatamente inflazionistica). Questa è la lezione della storia, e non ci possiamo fare nulla né io, né voi, né i miei amici mercati. Il cambio fisso, senza regolamentazione dei movimenti di capitale (come nel sistema di Bretton Woods in vigore fino al 1971) ha, fra i vari pregi, anche quello di essere fautore di instabilità finanziaria.

L'ultima volta che li ho visti, gli amici mercati, a Londra, un paio di settimane or sono, una seccante investitrice originaria di un paese periferico, che, come tutti gli ascari, manifestava grande fedeltà alla causa e grande venerazione per i suoi colonizzatori, mi decantava l'efficienza del governo di Macron che, a suo dire, si era presentato al colloquio coi mercati con un programma dettagliatissimo, e lo stava realizzando (e io dentro di me ridevo, perché questo blog che fu Cassazione per Hollande lo sarà anche per Macron, ed è veramente preoccupante che i nostri soldi siano in mano a persone che invece di avere l'umiltà di stare ad ascoltare chi ne sa più di loro e lo ha dimostrato continuino a ripetersi i mantra che i giornali defecano quotidianamente, senza avere un nanosecondo di memoria storica, quello che basterebbe per capire che in certi racconti c'è molto che non va...). Insomma, mentre questa qui continuava a seccarmi con domande petulanti sull'uscita dall'euro, per mettermi in difficoltà (a me!?), io, con grande serenità, con grande cordialità, ma con sufficiente fermezza, ho chiarito una cosa: che anche se fare default non è minimamente l'intenzione dell'Italia, né tantomeno la nostra se andassimo al governo, e anche se siamo ancora ben lontani da una situazione simile, tuttavia la storia dimostra che proseguendo con le politiche di austerità estrema che lei chiedeva, perché pensava di andarne immune (e io, con grande pietas, già la vedevo in mezzo a una strada con lo scatolone di cartone), alla fine, dalle e dalle, l'alternativa non sarebbe più quella fra essere pagati in euro o in "lirette svalutate", ma quella fra essere pagati in valuta nazionale o non essere pagati per niente: e questo non solo nel caso nostro, ma anche in quello del suo amico Macron, che ha pur sempre un discreto problema di deficit gemelli.

Lei non ha capito, ma altri sì: occorre un ripensamento profondo delle regole, questo è chiaro, occorre crescita, e quello che serve per renderla sostenibile. Quello che non è chiaro è se saremo abbastanza ragionevoli da realizzare i passi necessari evitando una ulteriore catastrofe. A giudicare dai discorsi che si sentono in televisione e si leggono sui giornali, c'è da essere piuttosto pessimisti. Ma di questo parleremo un'altra volta...





(...ora aspetto una slavina di "urge" e di "non hai detto che bisogna uscire dall'euro", e via moreggiando... Quod dixi dixi: io posso dirlo. E voi?...)

(...ah, questa era una lezione: l'esercitazione arriva domani, o dopodomani. Metteremo dei numeri nella formula per vedere bene come funziona. Dopo di che, ne saprete più degli austeri Soloni che pontificano in televisione, e potremo divertirci un po' alle loro spalle...)